Dalla Brexit al Regno dis-Unito?

Dalla Brexit al Regno dis-Unito?

Quasi 6 anni fa, quando fu chiesto agli scozzesi di votare in un referendum storico per rimanere parte del Regno Unito, il 55.30% degli aventi diritto si schierò a favore del No, facendo sfumare il sogno di una Scozia indipendente. Ma andiamo con ordine soffermandosi su due aspetti principali, vale a dire l’esperienza referendaria del settembre 2014, con particolare attenzione all’iter negoziale che ha condotto la Scozia e il Regno Unito a firmare un accordo e rendere possibile l’istituzione di un referendum, e gli eventi politico-sociali che stanno attraversando il paese nell’ultimo periodo.

“Should Scotland be an independent country?” (Dovrebbe la Scozia essere un Paese indipendente?) era il quesito al quale il popolo scozzese fu chiamato a rispondere nel referendum del 2014, ma anche un’importante decisione che avrebbe inciso sul futuro della nazione e sull’assetto istituzionale del Regno Unito. Nonostante l’ormai ben noto esito negativo, una vittoria degli indipendentisti avrebbe infatti messo fine a trecento lunghi anni di storia, durante i quali la Scozia fu incorporata al Regno Unito di Gran Bretagna con l’approvazione degli Union Acts nel 1707.

Dopo quattro anni al governo come minoranza, la vittoria schiacciante del Partito Nazionale Scozzese (SNP) alle elezioni parlamentari del 2011 riaccese il dibattito sulla mai sopita questione dell’indipendenza. Infatti, andando a ritroso, nonostante alcuni tratti essenziali del nazionalismo e dell’assetto giuridico scozzese vennero mantenuti con il processo di incorporamento, negli anni che seguirono, l’influenza inglese fu comunque prevalente nella gestione e nel controllo degli affari interni del paese e questo incrementò il desiderio di autonomia e separazione della Scozia dal Regno Unito.

Al centro dell’agenda politica del leader dello Scottish National Party e Primo Ministro scozzese Alex Salmond, vi era la convocazione di un referendum che avrebbe consentito alla Scozia, in caso di esito positivo, di divenire sovrana e indipendente. Tuttavia, prima di permettere agli elettori di esprimere il proprio voto e decidere le sorti della propria nazione, era necessario aprire una fase pre-referendaria e negoziale tra il governo di Londra e il governo di Edimburgo circa la facoltà di indire la consultazione stessa. Infatti, dal combinato disposto delle Sezioni 1, 29 e 30 dello Scotland Act – vale a dire l’atto con il quale il parlamento inglese ha definito le competenze del parlamento scozzese nel 1998 – emerge che l’organo legislativo scozzese non può legiferare e autorizzare un referendum sulla propria indipendenza. Come riporta la Sezione 5 dello stesso documento, tutto ciò che riguarda la “Union of the Kingdoms of Scotland and England” è una materia riservata, cioè di competenza esclusiva del Parlamento britannico.

Pertanto, per poter procedere al referendum, era essenziale che i Primi Ministri del Regno Unito e della Scozia si accordassero affinché fossero trasferiti al parlamento scozzese il diritto e le competenze legali necessarie per definire le modalità di svolgimento del referendum. Nonostante il nazionalismo-unionista di Cameron e la sua opposizione alla secessione della Scozia, l’intesa politica venne raggiunta con la firma dell’Accordo di Edimburgo nel 2012, decretando ufficialmente la legalità della consultazione referendaria prevista per il 18 settembre 2014. Un aspetto interessante da sottolineare è proprio la scelta della data che rimanda al 700° anniversario della Battaglia di Bannockburn, durante la quale le forze del re Roberto I di Scozia sconfissero l’esercito inglese, durante le guerre di indipendenza.

Accanto alla fase delle trattative messe in atto dai due governi, merita attenzione anche il quadro giuridico previsto da due atti emanati dal parlamento scozzese, vale a dire lo Scottish Independence Referendum Act e lo Scottish Independence Referendun (Franchise) Act, adottati rispettivamente il 14 novembre e il 27 giugno del 2013. Mentre il primo definisce le regole sullo svolgimento del referendum e sulla campagna elettorale, il secondo si sofferma sui soggetti aventi diritto di voto. Andando nello specifico dei due documenti, una volta elaborato il quesito da presentare all’elettorato e precisato dalla Electoral Commission che esso debba essere chiaro, semplice e neutrale, l’aspetto innovativo riguardava la facoltà attribuita per la prima volta ai cittadini con una età minima di 16 anni e residenti in Scozia di poter votare.

Oltre all’attività di “consulenza”, la stessa Commissione aveva anche il compito di sorvegliare sull’imparzialità della campagna elettorale che vedeva, da un lato, lo schieramento degli indipendentisti con lo slogan Yes Scotland e, dall’altro, la fazione degli unionisti con il motto Better Together. Coloro che erano a favore dell’indipendenza sostenevano principalmente che il distaccamento dal Regno Unito avrebbe favorito l’economia scozzese, permettendo ad Edimburgo – e non a Londra come in realtà accadeva – di incassare i proventi derivanti dalla ricca e fiorente industria petrolifera e divenire leader nel settore. Sancendo un’autonomia da Westminster, una vittoria del Sì avrebbe inoltre beneficiato e rafforzato le politiche sociali e occupazionali del paese, da sempre ritenute sfavorevoli nei confronti della Scozia che, tuttavia, avrebbe mantenuto la sterlina, la corona inglese come capo di stato e l’appartenenza alla UE. Sul fronte opposto, i sostenitori contrari all’indipendenza facevano leva essenzialmente su due ragioni principali: l’esistenza di una “emotional connection” con il Regno Unito e la crescente incertezza economica a cui sarebbe andata incontro la Scozia.

L’esito dell’esperienza referendaria del 2014 è ormai dato per assodato. Con circa dieci punti di distacco, il popolo scozzese ha deciso di rimanere parte del Regno Unito. Tuttavia, gli esiti del referendum di giugno 2016 e l’approvazione del Brexit deal da parte di entrambe le Camere del Parlamento britannico, hanno cambiato le carte in gioco, e il desiderio della Scozia di divenire indipendente torna a farsi sentire sulla scena politica. Insieme all’Irlanda del Nord, la volontà del governo scozzese è ad oggi duplice: separarsi dal Regno Unito e rimanere nell’UE.

Come ai tempi del referendum del 2014 fu emblematica la figura di Alex Salmond, attualmente è Nicola Sturgeon a intrattenere i rapporti con il governo londinese. Avvalendosi come accaduto in passato della Sezione 30 dello Scotland Act, il Primo Ministro scozzese e attuale leader del Partito Nazionalista Scozzese ha chiesto un nuovo referendum al governo di Boris Johnson che, tuttavia, ha rigettato formalmente tale richiesta. Ciò ha condotto migliaia di persone a scendere in piazza e tingere di blu le strade di Glasgow, manifestando in difesa di una Scozia libera, ancorata alle garanzie che l’appartenenza all’UE offre e contraria ad un’imposizione profondamente antidemocratica come Brexit. Il movimento All Under One Banner – principale gruppo indipendentista scozzese a capo della manifestazione – ha pubblicato un video online nel quale ha sottolineato l’importanza di garantire alla Scozia il fondamentale diritto all’autodeterminazione.

Codificato in documenti internazionali, come la Carta delle Nazioni Unite nel 1945 e i Patti Internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, tale diritto deve essere inteso come il diritto di uno Stato di poter scegliere il proprio “futuro costituzionale” e, su tali basi, risulta quindi chiaro che bloccare il diritto all’autodeterminazione della Scozia, non concedendo la possibilità di indire un referendum, sarebbe democraticamente indifendibile. Un’alternativa all’indipendenza scozzese è stata proposta da Richard Leonard, leader del partito laburista il quale ha suggerito, come terza possibile opzione da tenere in considerazione in sede di referendum, la creazione di un Regno Unito federale, a fianco della completa indipendenza e del mantenimento dell’attuale forma di governo.

Alla luce quindi di questi ultimi eventi, l’eventuale vittoria di un “leave”, nel caso in cui si tenesse un secondo referendum sull’indipendenza in Scozia, potrebbe portare con sé il rischio di una forte dissoluzione interna.

Federica Donati

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