Un’analisi delle elezioni in Turchia del 24 giugno 2018

Un’analisi delle elezioni in Turchia del 24 giugno 2018

“Erdoğan ha legato il portiere al palo e così ha segnato il calcio di rigore”. E’ questa la più efficace e sintetica analisi del voto del 24 giugno in Turchia che sia stata pubblicata finora. L’espressiva metafora è stata utilizzata dal noto giornalista dissidente turco, Can Dündar, rifugiatosi in Germania, che dà perfettamente l’idea del contesto totalmente iniquo in cui si sono svolte le elezioni in Turchia. Qualsiasi analisi sociologica, scientifica, seria e rigorosa del voto non può prescindere dal contesto fortemente inquinato in cui si sono svolte le elezioni turche, diversamente si tratterebbe solo di un vano esercizio e di una mistificazione.

Come possono considerarsi libere e imparziali elezioni tenutesi in stato di emergenza e dunque in un quadro giuridico restrittivo con limitazioni delle libertà di riunione e di espressione, anche nei media? Con la sospensione di fatto dello stato di diritto e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo di cui la Turchia è firmataria? Come possono essere considerate libere e imparziali elezioni in cui l’opposizione è stata totalmente esclusa dai media di informazione pubblica e in cui i giornali e le Tv sono totalmente controllate dal governo, e in un contesto in cui il Consiglio supremo elettorale (YSK), che dovrebbe per Costituzione essere un organo imparziale, è sotto lo stretto controllo del regime?

Come riporta il primo rapporto OSCE dopo il voto, “si riscontra l’abuso di risorse statali da parte del partito al potere che ha contraddetto la separazione tra stato e partito” e ancora “nel giorno delle elezioni, nelle procedure compiute durante il conteggio e la tabulazione delle schede sono state spesso omessi passaggi importanti prescritti dalla legge”.

Alcuni emendamenti alla legge elettorale, introdotti poche settimane prima dell’inizio della campagna elettorale, hanno indebolito importanti salvaguardie sostituendo i rappresentanti dei partiti politici con i funzionari pubblici in qualità di presidenti dei comitati delle urne, consentendo il trasferimento dei seggi elettorali per motivi di sicurezza da un collegio ad un altro nelle aree a maggioranza curda, finendo con l’ostacolare il libero esercizio del voto. Inoltre, come ha denunciato la Convenzione di Venezia alcune settimane prima del voto, “ritenere valide schede non preventivamente vidimate e trasferire elettori in liste in altra residenza comporta l’alterazione del risultato elettorale”.

A tutto questo si aggiungono i continui attacchi contro gli uffici e i gazebo elettorali del Partito Democratico dei Popoli (HDP), di sinistra libertaria e filocurdo. Sempre nelle aree curde, le forze di sicurezza spesso hanno adottato tattiche intimidatorie verso gli elettori dispiegando mezzi blindati e veicoli della polizia in prossimità di raduni dell’HDP con continui e approfonditi controlli di identità equivalenti a vere e proprie molestie per scoraggiare e ostacolare la partecipazione degli elettori ai comizi di questo partito. A tutto questo si aggiungono arresti e fermi di esponenti politici di opposizione. Nessuno dunque che abbia il senso di obiettività può sostenere che queste elezioni si siano svolte in un ambiente equo e libero.

Detto questo, però, la massiccia partecipazione al voto (89%) ha dimostrato che i cittadini turchi non sono disinteressati o indifferenti al processo democratico. Erdoğan ha vinto nettamente le presidenziali con il 52,5% di voti, ma in Parlamento è calato al 42,5%, dal 49,5% del 2015. Dunque ha registrato un significativo calo di consensi ed è riuscito a conservare la maggioranza dei seggi solo grazie all’alleanza costituita col Partito del movimento nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli, la cui coalizione è riuscita ad ottenere il 53,6% dei voti e 342 seggi su 600.

L’Alleanza Nazionale, o alleanza dei princìpi – costituita dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP), laico socialdemocratico, dal Buon Partito (İYİ Parti) di destra di Meral Akşener e dal filoislamico Saadet Partisi (SP) – che si opponeva all’Alleanza Popolare di Erdoğan, è riuscita ad ottenere soltanto 191 seggi. Risulta premiato il Partito democratico dei popoli (HDP) con l’11,7% di voti e 67 deputati. Muharrem İnce, candidato alle presidenziali per il CHP, è riuscito ad ottenere una buona performace col 30,6%, ma il suo partito si è fermato al 22,7% determinando un calo di 3,5 rispetto al 2015.

Tuttavia, la grande affluenza, e il divario di oltre 20 punti tra i primi due candidati alle presidenziali, cioè tra il vincitore Recep Tayyip Erdoğan e il secondo classificato Muharrem İnce, ha indicato che nonostante tutto, il presidente turco gode ancora di un vasto consenso anche se ormai per vincere le elezioni è costretto a ricorrere a metodi non democratici e a manipolare il campo di gioco perché il suo partito non riesce più da solo ad essere maggioranza nel paese. Sembra proprio che il presidente turco per conservare il suo potere debba muoversi necessariamente in un contesto non democratico.

Da una prima analisi dei flussi elettorali appare evidente che senza l’apporto del partito ultranazionalista non solo non avrebbe avuto una maggioranza in Parlamento, ma non sarebbe stato nemmeno eletto al primo turno. Dunque ha avuto successo la tattica di Erdoğan di allearsi con il leader ultranazionalista Bahçeli, vero vincitore di queste elezioni, attore chiave nel nuovo Gabinetto di Erdoğan.

È improbabile che la svolta della Turchia col passaggio dal sistema parlamentare a quello dell’uomo solo al comando, sostenuto da una miscela di Islam politico e di ultranazionalismo, contribuisca a migliorare i legami con l’Occidente e che produca le cure per i crescenti malanni del paese che molti sostenitori di Erdoğan si aspettano, specialmente per quanto riguarda l’economia vacillante. Ciò allontana anni luce questo paese da un possibile ritorno in tempi medio-brevi alla democrazia liberale di stampo occidentale e non fa presagire nulla di buono su una possibile risoluzione della questione curda. L’appiattimento su ideologie ultranazionaliste e islamiche, antioccidentali, antieuropee e anticurde, minano ancora di più i princìpi democratici, i diritti umani e i diritti delle minoranze.

Con la vittoria di Erdoğan si completa il cambiamento di regime iniziato con il referendum del 16 aprile 2017. Il momento decisivo di questo cambiamento è stato il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, che ha segnato la fine della “Vecchia Turchia” e l’inizio di quella nuova. Il progetto della “Nuova Turchia” non è semplicemente inteso come un cambiamento da un sistema parlamentare a uno presidenziale-esecutivo, ma come una trasformazione totale del vecchio regime repubblicano. Erdoğan ha preferito l’alleanza con il nazionalismo estremo a lui necessaria per rafforzare il suo potere e per poter affermare la sua visione: quella del “Yerli ve Milli”, cioè del “Locale e Nazionale”; la visione della nuova Turchia con il recupero dei suoi valori locali e nazionali che rappresentano le radici dell’identità turco-islamica che la rivoluzione kemalista aveva represso, cancellato, introducendo valori, che egli definisce estranei alla cultura turca. E cioè, i valori occidentali, secondo il presidente turco, sono valori importati e dunque non appartengono alla tradizione turca. Questi valori devono essere appunto soppiantati da quelli locali e nazionali.

I consiglieri di Erdoğan che hanno ispirato questa visione sono persone come Mustafa Şentop, consulente del presidente e accademico di prestigio, che nel formulare questa riforma presidenziale di tipo esecutivo si è ispirato a modelli di regimi forti come quelli presenti in Asia. Che sono anche modelli ai quali Erdoğan si è sempre sentito più vicino. Come quello coreano, per esempio, dove tutte le istituzioni e la società lavorano per il progresso del paese, per renderlo una superpotenza economica-commerciale e tecnologica.

Questa combinazione di moderno e di autenticamente locale ben rappresenta il modello ideologico che da anni ispira il presidente e il suo partito. Da un lato l’efficienza e la tecnologia simboleggiate dall’imponente serie di opere infrastrutturali realizzate in questi anni: ponti, tunnel e aeroporti; giganteschi progetti di trasformazione urbana come il canale parallelo al Bosforo e le centrali nucleari. Una miscela di tecnologia, di efficienza e di potenza. Dall’altro la produzione sempre più insistente di una narrativa fondata sul recupero di codici, simboli e riferimenti religiosi e locali che pesca nel passato ottomano e che fa leva sul mai risolto trauma della grandezza imperiale perduta, altro classico leitmotiv della estrema destra turca.

Erdoğan ha iniziato la sua carriera politica da conservatore con un’identità islamista ma negli ultimi anni, e con l’obiettivo di ottenere il consenso della destra nazionalista MHP, di cui è oggi alleato, ha iniziato a utilizzare un registro retorico fortemente nazionalista: quello del Tekçilik (Monismo). Quando dice: “Tek Devlet” (un solo Stato), “Tek Millet” (una sola Nazione), “Tek Vatan” (una sola Patria) e “Tek Bayrak” (una sola Bandiera), non dice in realtà nulla di così straordinario o di nuovo per questo paese, si tratta – come sostiene l’insigne costituzionalista İbrahim Kaboğlu – di uno slogan nazionalista che era già popolare in Turchia prima che iniziasse a utilizzarlo lui. Egli riadatta questi slogan per rimarcare in realtà qualcosa di diverso, non a caso queste quattro espressioni cardine del nazionalismo turco sono da lui rappresentate con il saluto della Rabia (gesto delle quattro dita della mano adottato dalla Fratellanza musulmana di Mohammed Morsi, repressa nel sangue dal colpo di Stato in Egitto del 3 luglio 2013).

E dunque quando dice “Millet”, cioè Nazione, intende in realtà la “Ummah”, ovvero la comunità islamica nella sua interezza. Quindi, anche se non lo dice esplicitamente, la sua retorica è pervasa da elementi islamici. Per questo motivo, questa commistione tra nazionalismo e islamismo, rappresenta un problema fortemente divisivo perché la Costituzione turca, già nei suoi primi articoli, parla di secolarismo e di Stato di Diritto. L’interpretazione islamista del nazionalismo che ne fa Erdoğan risulta dunque in contraddizione con la Costituzione tanto cara alla parte laica della Turchia. La libertà religiosa sancita dalla Costituzione è un elemento fondamentale nella variegata società turca e il presidente turco dimostra invece di avere problemi nel comprenderlo perché tende a imporre il predominio dell’Islam sunnita, finendo ancor di più con l’apportare elementi divisi nella società.

Il risentimento conservatore/islamista, con l’ideologia ufficiale plasmata dai partiti politici di destra fin dagli anni ’50, è alimentato da molto tempo dal partito al governo che vuole imporre una nuova ideologia ufficiale. Secondo questa ideologia, il processo di modernizzazione e di secolarizzazione operato negli ultimi 200 anni (con l’eccezione dell’epoca del sultano ottomano Abdulhamid II) non è stato altro che un tradimento storico contro l’identità musulmana della nazione.

Mentre l’opposizione repubblicana considera il nuovo sistema presidenziale un problema di accumulo di potere nelle mani di un solo uomo, e dunque una questione di libertà, il partito al governo giustifica il nuovo sistema in termini di necessità di un’autorità senza vincoli e intralci in grado così di correggere i mali della storia. L’attuale criminalizzazione di tutte le opposizioni, accusate di minare la sicurezza nazionale, non è solo una strategia elettorale mirante a rafforzare il potere di Erdoğan, ma in realtà costituisce la pietra angolare della nuova ideologia ufficiale.

Dal momento che l’interesse nazionale è definito sulla falsariga di una missione storica, semplicemente non può esserci spazio per l’opposizione politica. Questa è la “nuova normalità” in Turchia. Le elezioni turche non sono state una competizione legale, non solo perché il partito al governo aveva più mezzi per competere e non solo perché non ci può essere libertà di espressione con lo stato di emergenza. Non sono state legali anche perché il partito al governo ha presentato la competizione politica come una lotta tra coloro che rappresentavano la “sicurezza nazionale”, e dunque la sopravvivenza della nazione, e coloro che erano i “nemici della Turchia”.

Proprio per questo Erdoğan non era ritratto come un normale candidato o anche come un normale essere umano – ma come l’eroe che salva la Turchia da tutti i suoi nemici e come colui che è impegnato a “correggere gli errori della storia”. Ora con tutto il potere concentrato nelle sue mani non ci sarà alcuna possibilità di contrastare questa nuova ideologia ufficiale. Erdoğan punterà a diventare il mito fondatore della ‘’nuova era’’ e sarà sempre meno possibile mettere in discussione la sua leadership, poiché sarà riconosciuto non come una figura politica, ma come l’unico salvatore della nazione.

Mariano Giustino

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