Uiguri, non si dica: non lo sapevamo. Il monito di Laura Harth

Uiguri, non si dica: non lo sapevamo. Il monito di Laura Harth

Questa settimana c’è stata la terza fuga di documenti del governo cinese che testimoniano il sistema di sorveglianza orwelliana e la detenzione forzata di milioni di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose nella Regione occidentale dello Xinjiang. Ad oggi chi ha responsabilità istituzionale non potrà fingere di non esserne stato a conoscenza e dovrà assumersi la responsabilità non solo di aver taciuto, ma di aver collaborato con il Partito comunista cinese per metterlo sotto il tappeto. Il monito di Laura Harth per Formiche.net

Si è da poco celebrata la Giornata della Memoria, accompagnata in Italia con cori sempre più alti sul pericolo odierno fascista. Nel frattempo aumentano le prove schiaccianti sui crimini contro l’umanità del regime nazi-comunista del Partito comunista cinese contro le sue minoranze etniche e religiose, sorvegliate, detenute, e sottoposte a torture in modo massiccio. Ma buona parte della politica italiana, proprio quella che grida al ritorno del fascismo in Italia, tace e accorre a stringere la mano ai rappresentanti di quel regime. Sappiano che quando la storia giudicherà, non potranno fingere di non aver saputo.

KARAKAX LIST

Questa settimana c’è stata la terza fuga in altrettanti mesi di documenti del governo cinese, che testimoniano in modo eclatante il sistema di sorveglianza orwelliana e la detenzione forzata di milioni di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose nella Regione occidentale dello Xinjiang in Cina.

La cosiddetta “Lista di Karakax”, divulgata questa settimana, consiste in un elenco di tipo Excel con informazioni dettagliate su oltre 300 persone nella contea di Karakax, dove oltre il 90% della popolazione è di etnia uigura. Ogni scheda dell’elenco riporta dettagli sulla vita della persona sotto sorveglianza, secondo uno schema delle “Tre Cerchie”: abitudini e legami familiari, sociali e religiose.

Mentre il Partito comunista a Pechino continua ad affermare che sta soltanto implementando una campagna di deradicalizzazione nella regione che nel passato è stata in effetti colpita da alcuni attacchi terroristici, l’elenco – oltre ai numeri dei detenuti già emersi prima – rendono evidente che la campagna “Colpo Duro Contro l’Estremismo” è molto più estesa e non può che essere letta come una vera e propria guerra contro l’identità culturale e religiosa delle minoranze etniche e religiose. Tra i motivi per la detenzione in un “campo di formazione professionale” (la denominazione ufficiale adottata dal Partito comunista cinese quando nell’ottobre 2018 – di fronte alle prove sempre più schiaccianti – ha finalmente ammesso l’esistenza dei campi) troviamo innanzitutto degli elementi legati alla pratica del culto musulmano, con una interpretazione dell’estremismo islamista molto ampia, ma sulla quale Pechino ha sperato di potersi appoggiare per giustificare le sue politiche discriminatorie in un quadro globale di lotta al terrorismo, come è emerso dai discorsi interni di Xi Jinping trapelati in precedenza. Tra questi “crimini” troviamo: portare il velo, farsi crescere la barba lunga, chiudere il ristorante durante il Ramadan, fare il hajj o pregare in pubblico. Sotto un controllo stringente e delle regole sempre più rigide in materia di culto religioso, incorrere in violazioni di tale genere è facile.

Altri possibili comportamenti sospetti includono: aver viaggiato in uno dei 26 Paesi “sensibili”, possedere un passaporto – anche se non si sono intrapresi viaggi internazionali -, avere troppi figli – un reato di solito raramente, se mai, punito con la detenzione -, o avere un parente che ha scontato una pena detentiva in precedenza. Infine, c’è la categoria massima in cui l’accusa è di essere una “persona inaffidabile”.

REGIME DI SORVEGLIANZA

Le schede in cui vengono descritte in dettaglio i comportamenti quotidiani degli individui per formulare le “accuse” confermano inoltre la pratica denunciata da tempo da uiguri esiliati: lo sforzo laborioso e da lunga data (alcune voci risalgono al 2014 – anno dall’inizio della campagna “Colpo Duro”) effettuato da funzionari minori che vengono mandati nello Xinjiang a vivere con e monitorare le famiglie uigure. Adrian Zenz, senior fellow presso la Victims of Communism Memorial Foundation, che ha guidato la squadra di esperti che hanno verificato i documenti, afferma: “Questi dati vengono raccolti da impiegati governativi che visitano le minoranze, vivono con le loro famiglie (delle minoranze), che dormono (nelle loro case), che trascorrono del tempo con loro, che scoprono ogni dettaglio intimo e privato. E poi inseriscono tutte queste informazioni in un database digitale tramite un’app per smartphone”.

Infatti, da quando è entrato in carica nel 2016, il capo del Partito comunista dello Xinjiang Chen Quanguo, il principale architetto del sistema di internamento nella regione, ha rafforzato i metodi di sorveglianza e controllo sociale nello Xinjiang dividendo ogni area residenziale in comunità di alcune migliaia di persone con polizia e funzionari dedicati responsabili della “stabilità sociale”. I documenti di Karakax mostrano come gran parte del processo decisionale sull’internamento è lasciato a questi funzionari del Partito. Chen ha sviluppato questi metodi per la prima volta durante un periodo di cinque anni in Tibet, dove ha implementato una seria di nuove e rigide misure di sicurezza per frenare le libertà religiose. Ha ampliato l’uso delle “unità di lavoro” dei villaggi: piccoli gruppi di funzionari incaricati di tenere d’occhio i residenti nella loro zona.

“I contenuti di questo documento sono davvero significativi per tutti noi perché ci mostrano la mentalità paranoica di un regime che controlla il superpotere emergente di questo globo”, ha detto Zenz alla CNN. Tale pratica permette anche di allargare appunto la scheda di ogni persona con informazioni dettagliate sulle loro cerchie familiari e sociali: comportamenti “sospetti” di parenti (ad esempio vivere all’estero) e vicini, o il giudizio di provenire da un “ambiente familiare religioso”, costituiscono di per sé prova abbastanza per ritenere che una persona possa rappresentare un “rischio sociale” di cui si raccomanda la “formazione” in un campo. Di fatto, come emerge dalle testimonianze dirette di alcuni ex detenuti che sono riusciti a sfuggire all’estero, questa formazione consiste in un vero e proprio “brainwashing” con l’insegnamento forzato del mandarino, la propaganda del Partito comunista cinese, e la “confessione” o “penitenza” per i comportamenti e/o pensieri sbagliati del passato, il tutto in campi sovraffollati e sotto le dovute torture.

Le schede sembrano riportare anche delle valutazioni “intermedie”, in cui si valuta il cambiamento del detenuto, tenendo sempre conto anche della cerchia dei familiari e della cerchia sociale, e si raccomanda la continuazione della formazione, il “rilascio” a libertà sorvegliata nella comunità (va notato in tal senso che i parenti all’estero continuano a non riuscire a contattare i loro familiari che risultano essere rilasciati) o – una potenziale corroborazione delle accuse formulate da attivisti dei diritti umani che i detenuti vengono utilizzati per il lavoro forzato – il “rilascio” al lavoro nei parchi industriali, i quali secondo immagini satellitari sono cresciuti molto negli ultimi anni.

NON LO SAPEVAMO?

Vari media internazionali hanno inviato una copia dei documenti sia al ministero degli Affari esteri cinese sia al governo locale dello Xinjiang, per verificarne l’autenticità e chiedere commenti. Non c’è stata risposta. Parlando però in Germania giovedì, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che accoglierà volentieri diplomatici o media internazionali a visitare lo Xinjiang per vedere la verità da soli, ma precedenti tentativi di organismi o media internazionali di visitare i centri di detenzione nello Xinjiang sono stati bloccato dalle autorità del governo locale, i quali però hanno istituito cosiddetti tour di propaganda per prediletti in pieno stile nordcoreano.

Wang Yi ha affermato: “(Coloro che sono venuti) non hanno visto campi di concentramento o persecuzioni nello Xinjiang. Tuttavia, ciò che hanno visto è che tutti i gruppi etnici sono in grado di convivere in modo pacifico e armonioso… La loro libertà religiosa è totalmente protetta e possono praticare la loro religione senza restrizioni. I cosiddetti campi di concentramento con il cosiddetto 1 milione di persone sono voci al 100%. È una notizia completamente falsa. Non capisco perché queste persone mentano ancora mentre hanno i fatti. Posso solo dire che queste persone sono profondamente prevenute contro la Cina”.

E mentre la Congressional Executive Committee on China (organo bipartisan e bicamerale del Congresso statunitense) ha parlato per la prima volta di “crimini contro l’umanità” in corso nello Xinjiang, dove il Dipartimento di Stato stima che sono in detenzione circa 2 milioni di persone, il 18 febbraio il media statale cinese Global Times denuncia: “Alcune élite politiche statunitensi stanno rafforzando la mobilitazione politica contro la Cina, cercando di attirare più forze occidentali per opporsi alla Cina. La loro attività più importante è attaccare la leadership del Partito comunista cinese e annerire il sistema politico cinese. È ovvio che sperino di reprimere il desiderio di altri Paesi di espandere la cooperazione con la Cina mobilitando l’avversione politica delle persone contro la Cina”.

Il riferimento al desiderio di altri Paesi di espandere la cooperazione con la Cina è un chiaro accenno agli sforzi in corso della Cina di riformare radicalmente il sistema internazionale e la concezione dei diritti umani, radunando i Paesi in via di sviluppo e mettendosene a capo, come sottolineato questo mese del Rapporto annuale del Foreign Intelligence Service estone. Uno sforzo non senza successo: lo “Stato di diritto socialista con caratteristiche cinesi secondo il pensiero di Xi Jinping” attira il sostegno del numero crescente di regimi autoritari nel mondo, e divide le forze occidentali. Un fenomeno evidente non solo per le recenti sconfitte eclatanti nelle nomine di alti funzionari Onu, ma soprattutto nell’impossibilità di adottare una denuncia formale di quanto sta accadendo all’interno della Cina (o in Paesi amici). Infatti, il primo principio del sistema cinese è quello della non-ingerenza negli affari interni di un altro paese, a partire dagli abusi sui diritti umani. Principio che non può essere più contrario alla lettera e lo spirito degli organismi multilaterali Onu, costituiti per mettere i diritti umani sopra il potere assoluto dello Stato.

E non sono solo gli organismi intergovernativi dell’Onu – come il Consiglio per i diritti umani – a tacere. Di fronte all’uscita della Lista di Karakax, il relatore speciale Onu – carica di esperti indipendenti – per i diritti delle minoranze Varennes ha affermato di non poter commentare la questione degli uiguri “perché nessuno gli ha chiesto di esaminarla”. Affermazione falsa dal momento in cui le corrispondenze divulgate dal Congresso Mondiale Uiguro testimoniano la ripetuta segnalazione della questione, segnalazione sufficiente per incaricare l’esperto.

Vari sono stati i tentativi di Ong – sempre più spesso censurati e segnalati con nome e cognome alle autorità cinesi come denunciano fonti interni all’Onu – e di alcuni Stati democratici a denunciare formalmente la strage in atto nello Xinjiang. Sforzi contrastati ad ogni passo dal regime cinese e i suoi “cronies”, che ormai fanno maggioranza nel Consiglio diritti umani.

E l’Italia, da quale parte starà nella storia?

Come Partito Radicale aspettiamo ancora lumi su quanto accaduto nel luglio del 2017, quando fu preso in stato di fermo Dolkun Isa, presidente del Congresso Mondiale Uiguro, venuto in Italia per denunciare l’inizio della campagna di detenzione di massa. Per non sconvolgere i rapporti con il Partito Comunista Cinese, la presidenza del Senato italiano lo mise a tacere negandogli due volte l’ingresso al Senato.

Sappiamo tutti cosa è accaduto a novembre di quest’anno, quando l’ambasciatore cinese in Italia dette degli “irresponsabili” a deputati e senatori italiani per aver dato voce nelle istituzioni al dissidente democratico di Hong Kong Joshua Wong. È passato però sotto traccia l’incarico ricevuto appena due settimane dopo – il 12 dicembre 2019 – del vice presidente della Camera Ettore Rosato a presidente dell’Istituto per la Cultura Cinese, con tanto di stretta di mano allo stesso ambasciatore: Li Junhua.

Il 29 febbraio e 1 marzo, si terrà al Palazzo dei Normanni dell’Assemblea Regionale siciliana a Palermo un importante raduno di personalità internazionali, membri onorari del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, per l’affermazione del diritto umano alla conoscenza come principio fondamentale dello Stato di diritto democratico.

Ecco, al vice presidente della Camera e alle tante – troppe – figure istituzionali italiane che continuano a tacere sui crimini del regime comunista cinese, vogliamo dire: quando alla fine della Seconda guerra mondiale è emersa la verità sulla tremenda strage nazista, molti cittadini tedeschi hanno detto “wir haben es nicht gewusst” – non lo sapevamo. Purtroppo, grazie alla compiacenza (forzata) dei media italiani, anche questa volta tanti cittadini italiani potranno affermare lo stesso. Ma chi ha responsabilità istituzionale non potrà fingere di non essere stato a conoscenza mentre accadeva e dovrà assumersi la responsabilità non solo di aver taciuto, ma di aver collaborato con il Partito comunista cinese per metterlo sotto il tappeto.

Laura Harth

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