Due mesi fa la morte di George Floyd

Due mesi fa la morte di George Floyd

Sono già trascorsi due mesi dall’assassinio di George Floyd, vittima di un folle agente di polizia, egli stesso vittima e boia al servizio di un sistema di sicurezza su cui un numero crescente di americani si interroga profondamente. Nelle ultime due settimane, le tensioni in molte città americane non sono diminuite e il Presidente Trump ha pensato di inviare gli agenti federali a domare le proteste. Succede allora di vedere immagini che si pensa provengano da Hong Kong, Pechino, Mosca, ma che invece provengono da Portland, Oregon. Agenti in mimetica non identificati che compiono “arresti” tra i manifestanti, caricando un numero imprecisato di persone, che qualcuno si affretta comodamente ad etichettare come “terroristi”, su veicoli anonimi, non riconducibili a nessuna agenzia di law enforcement.

Se le manifestazioni negli Stati Uniti assomigliano sempre più a quelle di Hong Kong, lo stesso non deve accadere per la risposta della polizia. Le procedure di arresto devono essere rispettate, altrimenti come sarà possibile sostenere quei valori e principi universali che Paesi come la Cina violano per natura? Vi è in ballo una conquista democratica generazionale: “Tra 10 anni farai lo stesso anche tu! Quel che devi fare oggi che hai 16 anni è trovare un’idea migliore perché ciò che stiamo facendo noi non funziona! Lui è arrabbiato a 46 anni, io sono arrabbiato a 31! Tu sei arrabbiato e ne hai 16! Capisci?” La scena è quella di una città del Tennessee. Le parole, gridate in un impeto di dolore e speranza in mezzo a una folla e riprese in un video postato su Twitter il 31 maggio scorso, sono rivolte da un uomo di 31 anni a un sedicenne per convincerlo di quanto sia pericoloso e controproducente saccheggiare e spaccare tutto. Un attimo prima aveva amaramente constatato la sordità del 46enne alle stesse parole. Tre generazioni di afroamericani lacerate e unite nel dolore e nella rabbia, ma separate nella via da imboccare per un futuro diverso, come lo erano Martin Luther King jr e Malcolm X.

Ci sono divisioni che attraversano profondamente le società, che avvelenano il dibattito democratico e polarizzano pericolosamente l’opinione pubblica. Si fatica non poco ad affrontare il problema che attanaglia gli Stati Uniti senza cadere nella banale contrapposizione che vede da un lato pericolosi anarchici anti-Trump a priori o ingenui buonisti e dall’altro protettori dello status quo e del “law and order” a tutti costi, magari muniti di pistola, meglio se è un fucile, meglio ancora se automatico. Così, mentre nella grande democrazia americana prende corpo il dibattito sulle discriminazioni razziali e su una possibile riforma delle forze d’ordine, tornano sotto i riflettori le cause che strappano via i George Floyd e i Rayshard Brooks: la mancanza di conoscenza e di responsabilità, accountability.

La città di Minneapolis fa da apripista nel lanciare un confronto serio, aperto, istituzionale e a livello di comunità. Quella di Camden, in New Jersey, offre già un’esperienza particolare avendo sciolto e riformato la polizia locale nel 2012. La nuova strategia è fondata sulla de-escalation della violenza. Nel 2019, Camden, circa 73.000 abitanti, di cui 50% latini e 42% neri, ha registrato un calo del 95% delle denunce di abusi commessi da agenti di polizia e una riduzione del 63% degli omicidi. Questi ultimi sono scesi da 67 nel 2012 a 25 nel 2019. Sono dati oggettivamente interessanti che dovrebbero invitare a comprendere. A maggior ragione se consideriamo che il capo della polizia della Contea di Camden, Joseph Wysocki, bianco, ha marciato con i residenti della città a seguito della morte di George Floyd. Sicché, dire che l’obiettivo dei proponenti del taglio dei fondi o della smilitarizzazione della polizia consista nell’abolizione o nell’appaltare la sicurezza a non meglio identificati fricchettoni, significa non capire la portata della posta in gioco.

La violenza straripante ha raggiunto livelli senza precedenti. Nel rapporto pubblicato ad aprile, l’International Peace Research Institute di Stoccolma ha mostrato che nel 2019 le spese militari a livello mondiale ammontano a circa 1917 miliardi di dollari. Cinque Paesi rappresentano il 62% della spesa totale: Stati Uniti, Cina, Russia, Arabia Saudita e India. Ci sono quasi un miliardo di pistole al mondo, un record. Ogni anno vengono prodotti circa 12 miliardi di proiettili, e ogni anno circa 500.000 persone perdono la vita sotto i colpi di arma da fuoco. Negli Stati Uniti, lo stesso dato ammonta a 35.000, mentre i feriti superano i 75.000.

Sono cifre spaventose di fronte alle quali il monito del Presidente Eisenhower sui pericoli del complesso militare industriale, denunciato nel suo ultimo discorso dalla Casa Bianca nel 1961, suona vuoto. Sembrano conquiste altrettanto vuote quelle che hanno sancito l’abolizione delle leggi sulla segregazione nel 1956 a Montgomery, in Alabama; quelle che nel 1960 hanno permesso a Ruby Bridges di divenire la prima bimba nera ad andare in una scuola di bianchi a New Orleans; e anche in tema di diritto del lavoro: Martin Luther King jr è stato ucciso a Memphis nel 1968 dove si era recato a sostegno dei lavoratori afroamericani di una società di nettezza urbana in sciopero per rivendicare pari diritti. Perfino la sfera della giustizia: Bob Dylan ha composto “Hurricane” dedicandola a Rubin Carter, il pugile nero vittima di un’ingiusta detenzione per quasi 20 anni dopo che un giudice ha riaperto il caso e capovolto la precedente sentenza perché emessa al termine di un processo non equo, inquinato da una forte profilazione razziale.

Naturalmente il razzismo, in quella parte di mondo, ha radici più profonde. Martin Luther King spiegava che l’America liberò gli schiavi nel 1863 con l’Emancipation Act di Abraham Lincoln, senza però dar loro né terre né altro per poter iniziare, ed erano gli anni in cui il governo regalava ettari ed ettari di terra nel West e nel Midwest. C’era quindi la volontà di dare una base economica ai contadini bianchi provenienti soprattutto dall’Europa. Ai contadini neri invece, che provenivano dall’Africa senza averlo scelto, in catene, e che avevano lavorato gratuitamente per oltre due secoli non fu dato nessun supporto economico. “L’emancipazione per il Negro era davvero libertà dalla fame. Era libertà dai venti e dalle piogge del cielo. Era libertà senza cibo da mangiare o terra da coltivare e quindi era libertà e carestia allo stesso tempo. E quando gli americani bianchi dicono al negro di costruirsi con le sue stesse mani, non vedono l’eredità della schiavitù e della segregazione”, diceva il reverendo King aggiungendo che ciascuno è chiamato a fare il possibile per costruirsi con le proprie mani, purché le abbia. Agli afroamericani tale possibilità è stata negata da decenni di oppressione e “da una società che ha deliberatamente reso il suo colore uno stigma e qualcosa di inutile e degradante.”

Stigma, razzismo, violenza: negli Stati Uniti, che certamente non sono più quelli degli anni ’60, continuano ad esser un problema a causa del combinato disposto della militarizzazione delle forze di polizia e di un sistema giudiziario che tende a penalizzare gli ultimi. Rispetto al primo fattore, con oltre 15.000 agenzie di sicurezza statali e locali e praticamente nessun requisito standardizzato per raccogliere informazioni specifiche, non esistono dati affidabili e completi né sul comportamento della polizia, né sulla quantità e l’uso di unità militarizzate.

Dalla tragedia dell’11 settembre, le forze di polizia statunitensi hanno ricevuto in dotazione armi ed equipaggiamenti in maniera crescente, e sono addestrate secondo tattiche di guerra. La tattica ovviamente comporta anche l’assunzione di una mentalità da guerra, da scontro. Si tratta in particolare del cosiddetto “Programma 1033”, che prevede il trasferimento di armi ed attrezzature dall’esercito direttamente alle agenzie di law enforcement statali e locali, con modalità piuttosto semplici e senza alcuna rendicontazione obbligatoria.

Nel 2017, il Washington Post scriveva che già nel 1998, erano state trasferite ad almeno 290 agenzie di sicurezza attrezzature per un valore di circa 9,4 milioni di dollari. Dagli attacchi alle Torri Gemelle al 2014, armi e attrezzature hanno inondato 3029 agenzie per un valore di quasi 800 milioni di dollari. Tra il 2006 e il 2014, il valore degli equipaggiamenti militari trasferiti ha superato 1,5 miliardi di dollari. Parliamo di almeno 6.000 veicoli anti-mine, 79.288 fucili d’assalto, 205 lanciagranate, 11.959 baionette, 50 aerei, 422 elicotteri e 3,6 milioni di dollari in mimetiche e altre “attrezzature per l’inganno”. Quale empatia, quale etica, quale integrità possono favorire lanciagranate e baionette?

Nel 2014, a seguito di un’altra tragedia che incendiò la città di Ferguson, in Missouri, l’American Civil Liberties Union (ACLU) aveva documentato l’uso e abuso di questo materiale che ha fatto incrementare anche l’impiego delle SWAT, acronimo di “Special Weapons And Tactics”. L’addestramento ricevuto da tali squadre è ben diverso da quello del poliziotto di quartiere. Il loro impiego dovrebbe essere limitato a situazioni con ostaggi o dove è plausibile che il sospetto sia armato. Le leggi sulla droga e sulle armi in America hanno creato una miscela esplosiva per cui le unità SWAT sono divenute moneta corrente. L’ex capo della polizia di Camden ha dichiarato che “i poliziotti sono guardiani, non guerrieri” ha ripetuto che il problema maggiore risiede nel fatto che il sistema federale non è a conoscenza dei numeri relativi al trasferimento di armi. Zero conoscenza significa zero controllo democratico.

L’unica eccezione è quella dello Stato del Maryland che, grazie ad uno statuto fuori dal comune, richiede a tutte le agenzie statali di registrare pubblicamente e uniformemente ogni intervento effettuato con unità SWAT. Uno studio dell’università di Princeton del settembre 2018 ha rilevato che in Maryland il 91% delle operazioni eseguite dalle unità SWAT sono mandati di perquisizione e solo il 4% situazioni con barricate. Secondo l’autore non vi è nessuna prova certa che le unità in questione riducano il tasso di criminalità, né quello di aggressioni o uccisioni subite dagli agenti. Ciò che emerge però è una reazione negativa dei cittadini alla visione di unità di polizia militarizzate e una minore disponibilità sia a finanziare agenzie di polizia, sia a pattuglie di polizia nei loro quartieri. In altre parole, l’unica cosa ad esser colpita è il prestigio della polizia.

Altri due elementi che opacizzano la reputazione della polizia sono la “qualified immunity”, cioè la dottrina legale che negli Stati Uniti protegge i funzionari governativi dall’essere citati in giudizio, e il “race gap”, cioè il basso tasso di agenti di polizia di estrazione afroamericana, latina o di altra etnia, rispetto alla popolazione. Dato che si aggrava perché gli uomini e le donne nere hanno molte più probabilità di essere fermati e di incontrare l’uso della forza da parte della polizia rispetto ai concittadini e concittadine bianchi. Secondo un’analisi del Washington Post, sebbene metà di coloro che hanno perso la vita in incidenti con la polizia siano bianchi, gli afroamericani vengono colpiti con una frequenza assai maggiore. Questi ultimi rappresentano meno del 13% della popolazione degli Stati Uniti, ma vengono uccisi con una percentuale doppia rispetto a quella degli americani bianchi. Anche i latini vengono uccisi a un ritmo sproporzionato. Secondo il Post, l’FBI non segnala la metà circa degli incidenti terminati con sparatorie mortali. Ciò avviene perché la segnalazione è volontaria e molti dipartimenti di polizia, per varie ragioni, non segnalano. Lo studio, pubblicato il 29 maggio, si basa su notizie riportate dalla stampa, post sui social media e rapporti di polizia. Si focalizza sugli ultimi cinque anni e risulta che in media vi siano tre morti al giorno in scontri a fuoco con la polizia.

A ciò dobbiamo aggiungere il problema delle cosiddette mele marce o dei “gypsy cops”, ovvero poliziotti con un curriculum discutibile che, anziché esser licenziati, vengono riassegnati ad un altro dipartimento. È vero che costituiscono una minoranza che appesta il corpo di polizia intero, ragion per cui dobbiamo esser ancora più riconoscenti verso quegli agenti che, con intelligenza e senso di comunità, servono davvero lo Stato e i cittadini al meglio delle loro capacità. Sono loro gli “eroi” che trovano la forza di divenire i primi ad incarnare la de-escalation violenta, resistendo alle tensioni e alle pressioni subite da manifestanti violenti da una parte, e dall’altra da superiori in divisa, financo il Presidente degli Stati Uniti, che incitano allo scontro.

Venendo alla giustizia penale, il la questione si complica non poco poiché le comunità più povere, come quella afroamericana, sono le più pattugliate e le più colpite anche a seguito dell’introduzione di meccanismi di controllo gestiti da algoritmi che, per esempio, contribuiscono a dettare i termini della libertà vigilata. L’algoritmo è uno strumento che da tempo viene impiegato nei tribunali degli Stati Uniti e che si sta diffondendo anche in Europa. In America le autorità locali utilizzano i cosiddetti “algoritmi predittivi” per determinare le pene detentive, i termini della libertà vigilata e perfino per organizzare le pattuglie di polizia. Ci troviamo ancora di fronte ad una dannosa mancanza di conoscenza perché troppo spesso non è chiaro come tali sistemi arrivino a formulare una decisione. Quali sono fattori di cui tener conto? Genere? Età? Codice postale? Ricezione del sussidio di disoccupazione? I produttori di algoritmi non sono ancora sottoposti a regole ferree e dunque l’elaborazione di tali strumenti resta largamente sconosciuta. Il nodo risiede nel fatto che gli esperti che creano gli algoritmi possono avere pregiudizi etnici, sociali, economici e che questi vengano immessi nel sistema, magari involontariamente. Si tratta di algoritmi che danno origine alla “sorveglianza predittiva”, che non permette certo di prevedere il futuro come nel film “Minority Report”, ma che nondimeno dà origine ad attività di “polizia predittiva”. Attività che rischiano di replicare e amplificare modelli di comportamento prevenuti o illegali legati a costumi e lasciti discriminatori che affliggono le forze dell’ordine.

I ricercatori e gli avvocati americani che si occupano di fenomeni così parlano di pratiche discriminatorie generate e rafforzate dai “dirty data” (dati sporchi) che sistemi di polizia predittiva hanno assorbito, aggravando di conseguenza tre criticità preesistenti: la prima è la cultura della segretezza che definisce le forze dell’ordine e il settore dell’intelligenza artificiale che collabora con esse. Il pubblico rimane largamente all’oscuro di chi concepisce e come gli strumenti di polizia predittiva, come funzioni la tecnologia e quali siano gli effetti.

Il secondo problema riguarda il fatto che la sorveglianza predittiva si basa principalmente su dati di polizia intrinsecamente soggettivi, che riflettono le pratiche, le “policies” della polizia, anziché i tassi di criminalità effettivi o la legge in alcuni casi. In particolare, la sorveglianza predittiva tende a ignorare i reati di colletti bianchi che sono relativamente sotto-investigati. Terzo punto: a causa della mancanza di conoscenza, non è possibile correggere i pregiudizi generati dall’intelligenza artificiale, facendo dunque calcificare le pratiche dannose.

A tutto ciò dobbiamo aggiungere un problema congiunturale rappresentato da un Presidente degli Stati Uniti che si caratterizza principalmente per il costante richiamo al “law and order”. Che un governo ricorra alla legge, al diritto e all’invocazione della legge per garantire la sicurezza è fisiologico. Quello che però dobbiamo chiederci è se sia Stato di Diritto bloccare con un ginocchio per quasi nove minuti George Floyd, disarmato. Lo è? È Stato di Diritto sparare alle spalle di Rayshard Brooks, uccidendolo? È Stato di Diritto fare irruzione sfondando l’ingresso di un’abitazione nel cuore della notte e uccidere Brionna Taylor, disarmata? È Stato di Diritto eseguire una manovra di contenimento e soffocare Eric Garner, disarmato? È Stato di Diritto uccidere una bambina di sette anni, Aiyana Stanley-Jones, ovviamente disarmata, durante un mandato di perquisizione? È Stato di Diritto uccidere Stefano Cucchi mentre è in “custodia” nelle mani dello Stato italiano? È Stato di Diritto uccidere Federico Aldovrandi, Riccardo Magherini, Davide Bifolco e Dino Budroni, disarmati, in pieno giorno?

Ritengo che non sia casuale la coincidenza dell’impennata di episodi di violenza, in forme diverse, con una fase di difficoltà e regressione delle democrazie e di contemporaneo avanzamento di regimi autoritari in termini di potere e di presunta efficacia economica e affidabilità. La fase in cui questi ultimi attaccano e deridono apertamente le democrazie è iniziata da tempo e ora si intensifica. Grazie a sistemi pervasivi e invasivi come il “social credit” cinese, il comportamento dei cittadini viene modificato inconsciamente, riducendoli a soggetti sostanzialmente benestanti e ammaestrati, il tutto senza dover reprimere nella violenza le rare ribellioni, almeno in teoria.

Scrivo con il cuore, che da sempre batte per gli Stati Uniti, appesantito e scrivo con contrarietà perché vorrei che la solidarietà andasse a chi la democrazia la sta perdendo e non a chi viene schiacciato da chi preferisce onorare l’ordine piuttosto che la giustizia. Ma come è possibile occuparsi di Hong Kong, se è innanzitutto la “mia” casa che rischia di essere travolta dalle fiamme? Non commettiamo l’errore di credere che l’Europa sia immune a tutto ciò. Nel dicembre 2015, intervenendo al Congresso di Nessuno Tocchi Caino nel carcere di Opera, Marco Pannella ha detto qualcosa di cui sono profondamente convinto: “Oggi gli Stati nazionali sono costretti a sopravvivere e a giustificare molto spesso con una interpretazione violenta quel che è legge, quel che è diritto”.

Credo sia un allarme da non sottovalutare che vale in primis per i Paesi democratici. In quelle parole ho sentito l’eco di Martin Luther King quando notava amaramente che spesso gli uomini sono più interessati al mantenimento dell’ordine che alla giustizia. C’è qualcosa nella sua lettera dal carcere di Birmingham, nel 1963, che dovrebbe far riflettere soprattutto quei “liberali” che si ritengono eredi dell’illuminismo, persuasi di essere fari da stadio quando al massimo illuminano vicoli ciechi già battuti da apologeti della libertà “di” ma non “da”, magari con il grilletto facile e con il desiderio di avere il “ferro” in tasca, anziché la biografia del reverendo King. Dal carcere di Birmingham: “Ho quasi raggiunto la deplorevole conclusione che il grande ostacolo del Negro nel cammino verso la libertà non sia il legislatore bianco o il membro del Ku Klux Klan, ma il moderato bianco che è più devoto all’ordine che alla giustizia”.

Quale miglior immagine di questa “deplorevole conclusione” se non quella dell’assalto armato, legale, ad aprile al Parlamento del Michigan, da parte di un nutrito gruppo di cittadini armati fino ai denti per protestare contro le misure anti-coronavirus imposte dal Governatore dello Stato, sostenuti dai “moderati bianchi” ai quali tutto ciò non dà nessun fastidio?

Con gli spazi di libertà che li contraddistinguono e le proteste che generano, gli Stati Uniti hanno ancora una volta il merito di incanalare l’ormai insopportabile senso di rigetto per la violenza, soprattutto per quella esercitata dalle autorità, di cui il mondo trabocca. Può mettersi in moto una rivoluzione culturale, dunque politica, dal basso in grado di valicare, storicamente e antropologicamente, il periodo e le dinamiche elettorali. Difficilmente però, la risposta securitaria e legalitaria del “law and order” aiuterà il sedicenne del Tennessee a costruirsi un futuro con Martin Luther King. L’ultima cosa di cui hanno bisogno gli Stati Uniti e il mondo intero sono generazioni di illusi oggi destinate a divenire cupi delusi domani. Presidente Trump, la democrazia è conoscenza e crescita o non è. “Legge e ordine” non bastano più. Mancano “giustizia e cambiamento”. E arriveranno. Con la nonviolenza e con il voto.

Matteo Angioli

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