Giulio Terzi: Date a Cesare. Ratisbona, l’Occidente, la nostra e le altre religioni

Giulio Terzi: Date a Cesare. Ratisbona, l’Occidente, la nostra e le altre religioni

Pubblichiamo l’intervento di Giulio Terzi di Sant’Agata, Presidente del Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella”, al convegno “Avere un domani, riflettere per progettare un futuro umano”, tenutosi il 15 gennaio 2020 all’Hotel Massimo D’Azeglio a Roma.

Desidero ringraziare l’On. Giuseppe Basini per l’invito. Lo ringrazio soprattutto per avermi – e averci – dato l’occasione di approfondire nuovamente – a 13 anni da quando fu pronunciato – il discorso del Santo Padre Benedetto XVI nell’Aula Magna dell’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006.

Non intendo tornare sulle considerazioni così autorevoli che sono appena state fatte. Vorrei però sottolineare alcuni aspetti che mi sembrano conferire oggi – a quel discorso a Ratisbona – un’attualità evidente e un valore speciale nella comprensione dei fondamenti filosofici e storici del rapporto tra ragione e fede.

Attualità del discorso di Ratisbona

Il primo aspetto è quello dell’attualità del discorso di Ratisbona. Al di là delle polemiche strumentali e un po’ superficiali di allora, circa il riferimento fatto dal Papa a un dialogo dell’imperatore Emanuele II Paleologo, balza agli occhi come fosse assolutamente centrale per Benedetto XVI affermare il principio della non violenza, della tolleranza e del dialogo che deve sempre regolare il rapporto tra ragione e fede e guidare la relazione tra l’essere raziocinante – l’uomo – e il suo Creatore – Dio – in ognuna delle “Tre Religioni del libro”.

La struttura filosofica e teologica sottesa al discorso di Ratisbona, coincide esattamente – e non poteva essere diverso – con quella del documento sulla Fratellanza Umana, sottoscritto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imam di Al- Azhar, Ahmad Al-Tayyeb.

Così come Ratisbona è la riaffermazione assoluta della non violenza della tolleranza e del dialogo quale fondamento del rapporto tra uomo e Dio, e tra gli uomini fra loro, l’identico principio è affermato ad Abu Dhabi, questa volta insieme dal Capo della Chiesa Cattolica e dal Grande Imam di Al-Azhar, massimo riferimento dell’Islam Sunnita.

La condivisione da parte di queste due altissime personalità di principi che erano stato evocati con grande chiarezza nel discorso papale di Ratisbona nel 2006 è ancor più significativa se si ricorda la posizione espressa da Al-Azhar al momento delle polemiche strumentali di tredici anni fa.

Le polemiche erano riferite soprattutto al grado di conoscenza che l’imperatore bizantino Paleologo potesse avere della dottrina islamica. Vi era tuttavia stata già all’epoca una considerevole convergenza: 38 leaders musulmani avevano sottolineato con lettera aperta al Papa le finalità di incoraggiare anche dentro il mondo musulmano una pubblica riflessione che dissociasse la fede dalla violenza e la legasse invece alla ragione. E’ il principio, affermato nella Sura del 2,256 del Corano: “nessuna costrizione nelle cose di fede”.

In che modo nel discorso del 2006, nel Documento sulla Fratellanza Umana dello scorso anno, si manifestano le convergenze che ho segnalato?

a) Diceva Papa Benedetto a Ratisbona:

“Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) l’imperatore tocca il tema della Jihād, della Guerra Santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella Sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la Guerra Santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue – egli dice –, non agire secondo ragione,“σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”. Questo il discorso di Ratisbona.

b) Vediamo ora le parti essenziali del Documento sulla Fratellanza Umana.

“In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro”. Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

La fratellanza umana “abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.
La libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi.
La giustizia e la misericordia.

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente – insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente – dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.

Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue.

Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione.
Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi”.

Sono questi alcuni passaggi particolarmente significativi del Documento sulla Fratellanza Umana.

Ma allora viene da chiedersi perché tanto clamore nel 2006, da parte di commentatori sia musulmani che cristiani? L’importante discorso di Ratisbona -nel suo insieme- affermava i principi fondamentali della non violenza, della tolleranza, e del rapporto tra ragione e fede che si ribadiscono nella Dichiarazione sulla Fratellanza Umana di Abu Dhabi.

I motivi sono diversi. Sono riassumibili anche in una accresciuta consapevolezza, maturata in tutto il mondo musulmano, oltre che il quello cristiano – dove peraltro tale consapevolezza è sempre stata diffusa – che la strumentalizzazione della fede per istigare odio, violenza, e terrore è inaccettabile per la stragrande maggioranza dei credenti siano essi cristiani siano musulmani.

L’accresciuta e sempre più estesa presa di coscienza nel mondo musulmano è eloquentemente dimostrata dalle importanti prese di posizione degli ultimi anni, in particolare in Marocco, in Egitto e in Giordania.

In Marocco.

Il 20 Agosto 2016 il Re del Marocco Mohammed VI pronuncia il suo tradizionale discorso nell’anniversario della ” rivoluzione del Re e del popolo contro il protettorato francese”, e si rivolge per la prima volta ai Marocchini residenti all’estero. Sono circa sei milioni, e si stima che almeno due tornino regolarmente al paese di origine durante le vacanze estive. Il Re parla una settimana dopo gli incidenti di Sisco, dove alcuni marocchini erano stati implicati, mentre ancora prima altri marocchini avevano preso parte agli attentati di Parigi del 13 Novembre 2015 e del 22 marzo 2016 a Bruxelles. Tra l’altro, sarebbero stati proprio i Servizi d’intelligence di Rabat a facilitare la neutralizzazione di Abdelhamid Abaaoud nascosto a Saint-Denis. Il 20 Agosto Mohammed VI denuncia “il fenomeno estremista e terrorista e il tentativo di collegarlo, a torto o a ragione agli immigrati, soprattutto in Europa”, e fa poi un’affermazione estremamente netta e inedita: “I terroristi che agiscono nel nome dell’Islam non sono dei musulmani né hanno alcun legame con l”Islam se non quello dell’alibi di cui si avvalgono per giustificare i loro crimini e le loro insanità. Sono individui perduti, condannati all’inferno per sempre. L’ignoranza li incita a credere che le loro azioni abbiano rilevanza per la jihad. Ma da quando la jihad porta a uccidere degli innocenti?”. La confutazione precisa del “Jihadismo” che il Re ricorda come una grave minaccia per il Marocco, colpito a più riprese sin dagli attacchi a Casablanca nel 2003, sviluppa argomentazioni teologiche di grande rilievo, per quasi le metà del discorso, e la ferma condanna dell’assassinio del sacerdote cattolico francese Padre Hamel. Il Re si situa così come protagonista centrale nella lotta contro il terrorismo Jihadista, impegnando il ruolo carismatico di Monarca Islamico.

In Egitto.

Pochi mesi prima, il 28 dicembre 2015 il Presidente egiziano Al Sisi aveva pronunciato un altrettanto importante discorso all’università Al-Azhar del Cairo, in presenza delle massime autorità religiose. Naturalmente sappiamo le circostanze dell’ascesa al potere di Al Sisi, contro la presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani. Le parole di Al Sisi meritano particolare attenzione per questo aspetto e soprattutto perché l’Università del Cairo è storicamente uno dei centri più autorevoli in materia di dottrina islamica. Quando Al Sisi usa il termine “nazione” non si riferisce esclusivamente all’Egitto ma alla “nazione islamica”. Al Sisi lo sottolinea. “Mi rivolgo agli studiosi della religione e alle autorità religiose. Dobbiamo rivolgere uno sguardo attento e lucido alla situazione attuale. E’ inconcepibile che l’ideologia che noi santifichiamo faccia della nostra intera nazione una fonte di preoccupazione, pericolo, morte e distruzione nel mondo intero. Non mi riferisco alla “religione” bensì alla “ideologia” – il corpo di idee e di testi che abbiamo santificato nel corso di secoli, al punto che rimetterli in discussione diventa difficile. Abbiamo raggiunto il punto in cui questa ideologia è ostile al mondo intero. E’ concepibile che 1,6 miliardi di musulmani uccidano il resto della popolazione mondiale, per vivere da soli? E’ inconcepibile. Io dico queste cose qui ad Al-Azhar davanti ad autorità religiose e studiosi. Che Allah possa testimoniare nel Giorno del Giudizio della sincerità delle vostre intenzioni, riguardo a quello che vi dico oggi. Non potete vedere le cose con chiarezza quando siete imprigionati in questa ideologia. Dovete uscirne e guardare le cose da fuori, per avvicinarvi a una visione illuminata. Dovete opporvi a questa ideologia con determinazione. Abbiamo bisogno di rivoluzionare la nostra religione… Onorevole Imam (Gran Sceicco di Al-Azhar, co-firmatario un anno fa del Documento sulla Fratellanza di cui abbiamo parlato), voi siete responsabile davanti ad Allah. Il mondo intero aspetta le vostre parole, perché la nazione islamica è lacerata, distrutta, avviata alla rovina. Noi stessi la stiamo conducendo alla rovina”.

In Giordania.

Il lungo legame che unisce il Re di Giordania all’Occidente era ribadito nell’incipit del discorso al Parlamento Europeo nel 2015 che cominciava con l’affermazione che le nazioni prosperano dove vi è mutuo rispetto. Il discorso del Re al Parlamento Europeo, subito dopo il rapimento e la brutale esecuzione del pilota giordano da parte dello Stato Islamico, mirava a rafforzare la coesione tra le diverse componenti della Nazione giordana e la ferma volontà di allontanare la minaccia del “califfato”. Re Abdullah ribadiva che la guerra voluta dall’Isis era nutrita dall’odio, e che i terroristi si erano macchiati di brutali omicidi in nome di Dio, ma che la fede non giustificava, affatto. E il Re sosteneva “la guerra contro un’ideologia espansionista che si alimenta nell’odio, che uccide in nome di Dio e di una religione che giustifica azioni diaboliche che nessuna religione deve tollerare. Una guerra contro terroristi he oltraggiano i valori dell’Islam e dell’umanità.

Il dibattito sul rapporto tra Islam politico e democrazia liberale si è intensificato drammaticamente con l’ondata jihadista che ha toccato l’Europa, e specialmente la Francia, tra l’inizio 2015 e la fine 2016. Certamente vi sono stati altri Paesi dell’Unione che hanno subito traumi altrettanto pesanti, come la Gran Bretagna, la Spagna, la Germania, i Paesi nordici, la Grecia, o paesi come il nostro che sotto la pressione migratoria hanno visto accrescersi fortemente la preoccupazione per il diffondersi di radicalizzazione, estremismo, e di gruppi Qaedisti o legati all’Isis.

Ma non è solo per l’ondata di terrorismo, e il numero di vittime da esso causate che la Francia merita speciale considerazione per cercare di capire l’Islam europeo. L’esperienza della Francia vale come modello estremamente significativo per le caratteristiche, le dimensioni, l’evoluzione demografica delle comunità musulmane, la loro organizzazione sotto il profilo religioso e politico, il fatto che è in Francia che sono fiorite iniziative -soprattutto ad opera di personalità legate ai Fratelli Musulmani, ad es. Tarik Ramadan – come la “lotta all’islamofobia”, la rivendicazione dei diritti nell’alimentazione “Halal”, le reti di solidarietà sociale con forte connotazione politica , come “à Notre Sécours”, la creazione ben vent’anni fa del “Congrès des Jeunes Musulmanes”.

L’esperienza francese è quindi estremamente importante anche per l’Italia
E’ in Francia, scrive un autore che a mio modo di vedere ha sempre dimostrato su questi temi una serietà e una capacità di analisi unica – Gilles Kepel – che tra inizio 2015 e fine 2016 nel paese “si è installata una larvata guerra civile”. Dagli attentati a Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, al massacro sulla Promenade des Anglais il 14 luglio 2016 a Nizza, allo sgozzamento di Padre Hamel dodici giorni dopo durante la S. Messa, i Jihadisti di Daech hanno trovato il “tallone d’Achille” della Francia. Hanno reclutato la seconda e la terza generazione di immigrati magrebini e del Sahel, che ha dato all’ISIS più di mille soldati del Califfato, ai quali si sono uniti francesi “di origine”, donne e uomini, convertiti all’Islam integralista.
Il progetto nazionale della Francia Repubblicana, aggiunge Kepel con un’osservazione che si adatta perfettamente anche all’Italia e ad altre società Europee basate sullo Stato di Diritto, riposava su un’idea di cultura e di civiltà condivisa. Che le popolazioni che ne venivano a far parte, quale che fosse la loro origine, religione, colore di pelle, sposassero i valori, la lingua, le leggi del Paese.

Il diffondersi del mito Jihadista, dell’ISIS o altro, ha “creato una frattura”, ed il fatto che ciò sia avvenuto soprattutto tra le generazioni più giovani dell’immigrazione dai paesi musulmani fa pesare un sospetto terribile sulla coesione che sognano debba avere la nostra patria.

Dal 7 gennaio 2015 all’estate 2016 il terrorismo islamico ha fatto scorrere in Francia il sangue di 239 morti, e di altre centinaia e centinaia di feriti. La spaventosa routine Jihadista che da molti anni si sviluppa in Africa, in Medio Oriente, in Asia – con milioni di vittime musulmane e in misura terribilmente crescente cristiane, in Nigeria, nel Sahel, in tutto il Nord Africa, nel Golfo di Guinea, in Somalia, Etiopia, Kenya, nei Grandi Laghi, in tutto il Medio Oriente, specie in Siria, Iraq, Yemen, nelle Filippine, in Indonesia, e nel Sud est asiatico, in India e nella stessa Cina, nonostante la repressione in atto nello Xinjiang, in Afghanistan e in Pakistan – è diventata da alcuni anni routine anche per la Francia e per l’Europa. Questa routine non è fatta in alcun modo da semplici atti di singoli individui, come hanno voluto descriverli diversi Governi, politici, o commentatori ignoranti dei processi che hanno lentamente fatto crescere e maturare il Jihadismo francese e quello europeo. E’ stata l’ossessione del diniego che ha portato il Belgio e altrove a minimizzare il pericolo Jihadista “per paura di far disperare chi abita a Molenbeek”, esattamente come i compagni di strada del partito comunista di altri tempi si proibivano di denunciare le stragi staliniste dei compagni sovietici per timore di “far disperare Billancourt”.

L’ossessione del diniego è stata particolarmente forte in Italia
Il filosofo Michael Walzer ha dichiarato: “Incontro spesso persone più preoccupate di essere considerate islamofobiche, che disposte a condannare il terrorismo islamico”. Confondendo in tal modo il dibattito politico, i leader europei non aiutano i propri cittadini a riunirsi, a rafforzare la loro volontà e identità comuni. L’atteggiamento del governo italiano non fa eccezione.

Il Professor Giuseppe Laras, compianto e grande esponente di riferimento nella comunità ebraica italiana, leader riconosciuto nel dialogo religioso e culturale in Italia, scriveva sul Corriere della Sera dopo gli attentati terroristici islamici di luglio 2016 in Bangladesh e in Francia: “…una politica suicida e ostinatamente ideologica continua a negare che l’Islam abbia qualcosa da fare con il terrorismo. Continuano a dire che ci sono altri motivi, come il disagio sociale nei sobborghi, la condizione dei migranti, i fallimenti delle politiche di integrazione, e così via”.

Non erano nella generalità dei casi pazzi, squilibrati o depressi – non ve ne sono stati se non in percentuali marginali – i terroristi che hanno colpito negli ultimi anni l’Europa. Come dimostrano inchieste e processi. Persino i servizi di Intelligence non hanno avuto una percezione sufficiente di quella che si potrebbe chiamare “rivoluzione culturale” del Jihadismo di terza generazione: lasciare tutto ad esecutori di base ogni iniziativa di passare dalla radicalizzazione estremista – questa sì, guidata da Imam radicali in Moschee, Centri c.d. “culturali” o “comunitaristi”, e spesso su Internet e nelle carceri.

Esattamente come proponeva sin dal 2005 un ingegnere Siriano, Abu Musab al-Suri, che aveva messo in rete un manuale di 650 pagine intitolato “Appello alla Resistenza Islamica Mondiale”. Diversamente da Bin Laden, che inviava degli esecutori perfettamente addestrati a colpire obiettivi ben individuati e con un preciso piano d’azione, dal 2010 a oggi è la strategia del “Jihadismo di prossimità”, predicata da al-Suri che si afferma. Con individui che colpiscono nel loro stesso ambiente, spesso a caso, o contro obiettivi scelti in considerazione dell’effetto sulla popolazione e sui media.

Due sono le forze della disintegrazione prodotte dalla frattura del terrorismo islamico nella società francese. Da un lato i “movimenti comunitari” dell’Islam in Europa – e nel caso in specie analizzato da Kepel, in Francia – che fanno prevalere l’appartenenza religiosa e i suoi “traccianti” sul territorio e negli spazi pubblici: hijab; burkini; cibo Halal; solidarietà e assistenza in “perimetri chiusi”; una lotta contro la “islamofobia” utilizzata per occultare il Jihadismo e per costruire strategie di egemonia sull’Islam francese (e europeo) in un contesto fortemente concorrenziale tra le comunità musulmane e tra i loro leaders. Questi “movimenti comunitari (o meglio, “comunitaristi”) considerano la nazione come lo strumento al servizio di un ideale distinto, e la qualità dell’essere francese, o europeo, come la semplice risultante del passaporto e dei vantaggi sociali che esso comporta.

Sull’altro versante, sostiene Kepel, una concezione (troppo accentuatamente) identitaria e (troppo) ristretta della Francia, con derive di fondo verso l’intolleranza etnico-razzista e la xenofobia. La sfida è immensa. Non è facile da affrontare. E’ il divenire stesso della nostra società che è in discussione. La maggior parte dei politici che sollecitano voti appartengono a una casta interessata principalmente a perpetuare i propri benefici. Il loro sprezzo per l’Università e la cultura, per l’identità nazionale ed europea, li ha resi sordi e ciechi dinanzi alla frattura che erode il paese, e l’Europa, e che è stata rilevata ampiamente da ricerche e studi da almeno quindici anni, e ancor più nell’ultimo quinquennio.

La sfida dell’evoluzione dell’islam in Europa non può e non deve essere affrontata separatamente da quella dell’evoluzione dell’Islam nel mondo, e prima di tutto in quella parte di modo che per evidenza storica, politica, culturale, economica, di contatti intellettuali e umani è la più vicina all’Europa: la realtà del mondo musulmano mediterraneo e medio orientale. E’ soltanto la reciproca comprensione delle sfide che abbiamo dinanzi che può rafforzare una comune, onesta, trasparente collaborazione che coinvolga governi e società civili. Quanto è avvenuto nel decennio che ora si chiude, e tutto quello che è accaduto in quello precedente, ha prodotto un’accresciuta consapevolezza e determinazione. Non partiamo affatto da zero, come qualcuno può forse ritenere.

A questo proposito dobbiamo, io credo, tenere ben presente cosa ha fatto maturare la comprensione del vero messaggio che il Pontefice Emerito Benedetto XVI voleva trasmettere da Ratisbona, sino al messaggio che due altissime Autorità religiose del Cristianesimo e dell’Islam, Papa Francesco e il Grande Imam Al Tayeb hanno voluto trasmettere con il Documento sulla Fratellanza di Abu Dhabi dello scorso febbraio.

Il messaggio sul valore della Non Violenza è assolutamente centrale, nell’affermare quello sul valore della Fratellanza Umana. Nessuno può dubitare che essi siano intimamente radicati nel pensiero, nell’azione, nelle esortazioni degli autorevolissimi firmatari del Documento, nella teologia e nella filosofia delle Istituzioni e delle società, religiose e civili, che essi perfettamente esprimono e rappresentano.

E’ questo profondo legame che ci fa ricordare come da alcuni anni, e potremmo guardare in particolare all’evoluzione che abbiamo potuto avvertire dopo il 2015 e 2016 in Francia, e in Europa, vi siano state delle prese di posizione, unite all’intensificazione di strategie e politiche mirate alla Tolleranza e al Dialogo, nel mondo musulmano a noi vicino. Mi riferisco in particolare al Marocco, all’Egitto e alla Giordania.

Vi sono anche, all’interno del mondo musulmano, di quello accademico e degli studiosi, le voci che sembrano poter influire per un’evoluzione imperniata sulla Non Violenza, la Tolleranza e il Dialogo. Non sono certamente né poche né marginali. Quella che vorrei menzionare, anche per le volute provocazioni che intende apportare al dibattito, è stata espressa con molto vigore proprio nei mesi in cui si registrano gli interventi dei Capi di Stato del Marocco e dell’Egitto. E’ la voce di una personalità che si definisce “Eretica” per non doversi riconoscere “Apostata”: Ayaan Hirsi Ali.

Sostiene Ayaan Hirsi Ali nel suo libro di alcuni anni fa (2015 “Eretica”) che “prima di cominciare a parlare di Islam, dobbiamo capire che cosa è riconoscere alcune distinzioni all’interno del mondo musulmano”.

Agli albori dell’Islam, quando Maometto andava di casa in casa tentando di convincere i politeisti ad abbandonare i loro idoli, li esortava ad accettare il fatto che non ci fosse altro dio all’infuori di Allah e che lui ne fosse il Messaggero.

Dopo aver intrapreso per dieci anni la via della persuasione, tuttavia, Maometto e il suo piccolo gruppo di seguaci si recarono a Medina e, da quel momento, la missione assunse una dimensione politica. I miscredenti erano ancora invitati a credere in Allah ma se rifiutavano venivano attaccati (ebrei e cristiani avevano la possibilità di mantenere la propria fede dietro pagamento di una tassa speciale). Niente rappresenta la vera anima dell’Islam più della “shahada”, ma oggi, in seno alla religione, è in corso una contesa per il possesso di tale simbolo. Di chi è la “shahada”? È di quei musulmani che vogliano enfatizzare gli anni di Maometto alla Mecca o di quelli ispirati dalle sue conquiste dopo Medina? Ci sono milioni e milioni di fedeli che si identificano nei primi, ma sono sempre più incalzati dagli altri, che vogliono rivivere e riattuare la versione politica dell’Islam sorta a Medina: quella che portò Maometto dal suo girovagare nel deserto a diventare un simbolo di moralità assoluta.

Su questa base si possono a mio giudizio distinguere – dice ancora Ayaan Hirsi Ali – tre diverse categorie di musulmani. La prima è formata dai fondamentalisti che intendono la “shahada” come un obbligo a vivere seguendo alla lettera i dettami del loro credo. Vagheggiano un regime basato sulla sharia e sono a favore di un Islam largamente o totalmente immutato rispetto a ciò che era nel Settimo Secolo. La dottrina degli sciiti guarda il ritorno del Dodicesimo Imam e al trionfo globale dell’Islam, i fanatici di appartenenza sunnita agognano più probabilmente la creazione violenta di un nuovo califfato qui sulla Terra. Li chiamerò, allora “musulmani di Medina”. I musulmani di Medina sono quelle che definiscono ebrei e cristiani “scimmie e porci” e le due fedi “false religioni”. Sono quelli che prescrivono la decapitazione come pena per il reato di “miscredenza”, la lapidazione per l’adulterio e l’impiccagione per l’omosessualità; sono quelli che mettono il burqa alle donne e le percuotono se escono di casa da sole o se non sono adeguatamente velate. I musulmani di Medina credono che l’uccisione di un infedele sia un imperativo, se questi rifiuta di convertirsi di sua volontà. Predicano la Jihad e glorificano la morte ottenuta con il martirio. Gli uomini e le donne che entrano in gruppi come Al-Qaeda, l’IS, Boko Haram e Al-Shabaad. Ed Husain ha stimato che solo il 3% dei musulmani del mondo interpreta l’Islam nei termini militanti sopra descritti, ma sugli oltre 1,6 miliardi di persone – il 23% della popolazione globale – 48 milioni non sembrano una cifra così trascurabile.

La seconda categoria – che rappresenta la netta maggioranza di tutto il mondo islamico – è costituita dai musulmani che sono fedeli al credo e praticano il culto con devozione, ma non hanno propensione alla violenza. Io – scrive Ayaan Hirsi Ali – li definisco “musulmani della Mecca”. Gli appartenenti a questo secondo gruppo hanno però un problema: il loro credo vive uno stato di difficoltosa tensione con la modernità, il complesso di innovazioni economiche, politiche e culturali che non solo ha cambiato il volto dell’Occidente ma esportato da quest’ultimo nei Paesi in via di sviluppo, ha trasformato profondamente anche loro. I valori razionalisti, individualisti e secolaristi della modernità sono corrosivi nei confronti delle società tradizionali e soprattutto delle gerarchie basate su genere, età o ereditarietà.
La mia speranza – dice Ayaan Hirsi Ali – sarebbe di coinvolgere questo secondo gruppo – in un dialogo sul significato e sulla pratica della loro fede. Ma forse potrebbero cambiare idea se anziché un’apostata, li inducessi a considerarmi un’eretica, appartenente a quella schiera di persone, in continuo aumento, che hanno tentato di pensare in modo critico la fede nella quale erano state allevate.

Sono i musulmani dissidenti e potremmo definirli “musulmani in trasformazione”. Alcuni di noi sono stati costretti dall’esperienza a persuadersi che non potevano continuare a dirsi credenti senza essere riformatori che hanno confermato la propria fede ma sono giunti alla conclusione che la loro religione debba cambiare se i suoi seguaci non vogliono essere condannati a un’interminabile spirale di violenza politica.

Attorno a questa tematica che riguarda la possibilità di una evoluzione in chiave riformatrice dell’Islam contemporaneo – e in particolare di ciò che ridefinisce come “Islam politico” gravita la grande questione dell’atteggiamento delle Democrazie Liberali.

Sin dall’inizio della Presidenza Obama, la questione del terrorismo islamico era stata affrontata evitando con decisione qualsiasi possibilità che il fenomeno potesse essere interpretato come una “guerra di religione”. Per questo timore l’Amministrazione si era astenuta dal prendere posizione nel dibattito che ha coinvolto nell’ultimo decennio i cosiddetti “musulmani riformatori”: proprio per evitare l’impressione di un sostegno esterno al mondo islamico che avrebbe avuto conseguenze controproducenti.

Ma una personalità che si batte da molto tempo per un’evoluzione riformata dell’Islam come Ayaan Hirsi Ali ritiene che ciò sia profondamente sbagliato. Sostenere il movimento di riforma dell’Islam non può essere paragonato a una “guerra di religione”; né lottare per alcuni principi e idee significa sostenere necessariamente interessi americani o occidentali; significa piuttosto accendere i riflettori e incoraggiare quanti ad esempio si oppongono all’applicazione letterale della Sharia agli apostati, alle donne, agli incitamenti alla guerra Santa che non possono aver alcuno spazio nel XXI Secolo.

E’ indiscutibile che la responsabilità di un movimento di riforma nel mondo musulmano non possa che riguardare esclusivamente i musulmani. Ma deve essere un preciso dovere del mondo occidentale – nell’interesse dell’umanità intera – dare assistenza e quando necessario garantire la sicurezza di quei riformatori che si assumono un impegno così formidabile; non diversamente da ciò che il mondo Occidentale ha fatto nell’incoraggiare tutti quei dissidenti che hanno avuto la forza morale di opporsi e sollevarsi contro il Comunismo Sovietico.

L’intervento integrale di Giulio Terzi di Sant’Agata è disponibile anche in video sul sito di Radio Radicale.

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