Intervista all’ex Procuratore Foss: “Il modo in cui perseguiamo, incarceriamo, etichettiamo e screditiamo le persone deve finire”

Intervista all’ex Procuratore Foss: “Il modo in cui perseguiamo, incarceriamo, etichettiamo e screditiamo le persone deve finire”

Adam J. Foss è il fondatore e direttore esecutivo di Prosecutor Impact, organizzazione no-profit che punta a migliorare il sistema di giustizia penale negli Stati Uniti, ed ex vice procuratore distrettuale presso l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Suffolk, a Boston, Massachusetts. È un convinto sostenitore della riforma della giustizia penale e dell’importanza del ruolo del pubblico ministero nel porre fine al fenomeno dell’incarcerazione di massa. Ritiene che i tempi siano maturi per una reinvenzione della professione del pubblico ministero basata su incentivi migliori e parametri più misurabili che vadano oltre il semplice numero dei “casi vinti”. Alessia Schiavon, ricercatrice del Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella, lo ha intervistato.

AS: In base alla sua esperienza diretta all’interno del sistema giudiziario, in particolare il ruolo ricopre il Pubblico Ministero, uno degli attori più importanti della giustizia penale, cosa può dire al riguardo?

AJF: È interessante come crescendo negli Stati Uniti tu sia portato a pensare qua che tutto sia migliore, compreso il nostro sistema giudiziario. Anche durante gli studi universitari alla Facoltà di Legge, ti viene detto che il nostro sistema di giustizia penale è il migliore proprio grazie a quella serie di protezioni e difese che sono frutto di numerose conquiste storiche.

Tuttavia, quando entri nel sistema di giustizia penale, vedi qualcosa di molto diverso. Ti accorgi che il sistema è molto funzionale per quelle persone incravattate che sono lì per svolgere il proprio lavoro, ma non lo è, invece, per quelli che vi entrano involontariamente sia come vittime che come indagati e imputati. E quando queste persone fanno il loro ingresso nel sistema e vi rimangono, quello che emerge è che il processo è davvero disumano, per nulla dignitoso, e per di più lento e costoso.

La maggior parte delle vittime lascia il sistema prima di vedere la risoluzione del proprio caso, mentre per coloro che hanno commesso un delitto le opzioni sono assai limitate: il nostro sistema le punisce e le sottopone a una gogna senza fine. Del resto, manca del tutto un approccio differente che tratti le persone con dignità e umanità, e l’effetto è del tutto negativo. Ovviamente è evidente che in questo Paese abbiamo un problema con la polizia, ma dobbiamo anche ricordare che la polizia gioca un ruolo limitato all’interno del sistema giudiziario. Mentre la polizia si limita a consegnare la persona alla porta di ingresso del sistema giudiziario, è poi il pubblico ministero ad introdurla effettivamente all’interno.

A mio avviso, il pubblico ministero rappresenta l’attore più importante del sistema giudiziario. Si trova di fatto nella posizione di chi decide se una persona sarà trascinata o meno nelle sabbie mobili della giustizia penale o se potrà o meno rimanere all’interno della propria comunità e rimanere così fuori dal sistema.

Nonostante questo suo ruolo così rilevante, è anche uno dei protagonisti della giustizia penale che rimane al margine del dibattito pubblico. Negli Stati Uniti l’attenzione si concentra soprattutto sulla polizia, come testimoniano gli ultimi eventi di cronaca. Questi omicidi sono solo un catalizzatore. La evidente pressione sociale che si manifesta quotidianamente è in realtà il frutto di una serie di dolorose micro-interazioni quotidiane tra la società e la polizia.

Eppure, i pubblici ministeri sembrano immuni alla rabbia sociale. Questo perché la polizia è più facile da identificare. Mentre gli agenti di polizia sono costantemente attorno a noi e li riconosciamo grazie alle loro divise e alle loro auto, i pubblici ministeri non sono altrettanto riconoscibili, vivono all’interno dei tribunali ed è solo lì che si possono incontrare. La cosa decisamente più frustrante è che i pubblici ministeri sono consci che quello che sta accadendo è un fallimento per il nostro Paese, ma non sembrano aver maturato la consapevolezza necessaria per riconoscere che essi stessi sono parte del problema. Infatti, si limitano ad affermare che stanno facendo il loro lavoro, perseguendo quegli individui che la polizia consegna loro. In realtà però, il loro modo di operare non è meno violento e dannoso e, soprattutto, provoca un impatto di lunga durata su coloro che rimangono intrappolati nel sistema.

La morte di George Floyd è risultata essere un catalizzatore che ha acceso i riflettori su alcune questioni critiche che riguardano le forze di polizia, ma ha anche posto l’accento su problematiche più profonde e sistemiche che caratterizzano la giustizia penale degli Stati Uniti e che si estendono ben oltre la brutalità della polizia, evidenziando la necessità di una riconsiderazione del sistema di giustizia penale degli Stati Uniti e di come la sua struttura e la sua storia  abbiano portato ad alcuni dei più alti tassi di criminalità e recidiva nel mondo. Per anni, il Congresso e numerosi Presidenti non sono riusciti a dar vita a riforme significative. Il momento attuale sembra rappresentare un’opportunità di cambiamento. Una eventuale riforma dovrebbe includere molti obiettivi ambiziosi come eliminare le pene minime obbligatorie per i crimini non violenti, abolire le carceri private, eliminare la cauzione e disincentivare l’incarcerazione minorile. Alla luce di tutto questo ritiene che i legislatori federali siano pronti a considerare queste ambiziose proposte?

In realtà la domanda sociale per un effettivo cambiamento della giustizia penale nel nostro Paese nasce ben prima della morte di George Floyd, nel 2010. In quel momento storico le persone cominciarono a realizzare che il problema non è solo la polizia in sé per sé e a concentrarsi su temi come la fine della guerra alla droga e l’incarcerazione di massa. Da quel momento credo che il sistema sia in un certo senso migliorato, almeno per quanto riguarda l’interrogarsi sul modo di risolvere i propri problemi interni.

Tuttavia, quello che ancora rimanere da capire è come affrontare la violenza e le disparità razziali che sono evidentemente presenti nel nostro sistema, in cui minori in difficoltà, immigrati, persone appartenenti alla comunità LGBTQIA, neri ed altre minoranze etniche sono sovra-rappresentati. Se guardi questi fatti e dati ti accorgi che i bianchi appartenenti alla classe media raramente finiscono in carcere e inizi a renderti conto che il sistema non solo è infettato da poche e povere idee su come far fronte a queste problematiche, ma anche che è estremamente razzista.

Affrontare la violenza e il razzismo sistematico e istituzionale è qualcosa che non siamo riusciti ancora a fare. Non sto dicendo che non siano stati affrontati, ma certo non possiamo pensare che corsi di formazione di 90 minuti sui pregiudizi impliciti rivolti ad un gruppo di pubblici ministeri possano essere la soluzione a tutto. Abbiamo una lunga strada da percorrere, perché il sistema è molto resistente al cambiamento e quello che ancora manca è un cambiamento culturale di tutti gli attori coinvolti che al momento non sembrano avere quell’umiltà necessaria per mettere in discussione le proprie azioni.

Anzi, succede esattamente il contrario. Ogni volta che qualcuno viene picchiato dalla polizia, non vi è alcuna assunzione di responsabilità, ma solo la auto-vittimizzante replica “veniamo uccisi anche noi”. Si finisce per incolpare tutti gli altri per i loro problemi e, sfortunatamente, la maggior parte delle persone ancora li celebra e li esalta. È scioccante pensare che alle stesse condizioni, se si trattasse di un’azienda privata e i clienti si lamentassero e protestassero per la qualità dei servizi ricevuti, con tutta probabilità l’azienda non avrebbe nessun problema nell’operare cambiamenti anche drammatici pur di generare un cambiamento.

Le politiche “severi con la criminalità” e “guerra alla droga”; sono profondamente correlate. Entrambe esprimono un approccio punitivo che negli anni ha avuto un impatto sproporzionato su persone di colore, comunità a basso reddito e minori. Sebbene le pratiche riabilitative siano sempre più implementate, l’incarcerazione e altre misure basate sulla deterrenza rimangono una parte importante dell’esperienza di un condannato per droga. Non a caso, il tema dei delitti di droga non violenti porta con sé necessariamente un’ampia gamma di questioni di giustizia sociale come la profilazione razziale, l’uso inappropriato delle risorse, le carceri sovraffollate e persino le possibilità lavorative ed educative. Tuttavia, l’attuazione di una eventuale riforma basata su un approccio riparatore richiederà inevitabilmente anche un cambiamento ideologico nel modo in cui gli americani vedono lo scopo primario della giustizia penale. Ritiene che i tempi siano maturi per fare questo passo avanti?

Il modo in cui perseguiamo, incarceriamo, etichettiamo ed esponiamo alla pubblica vergogna le persone deve scomparire immediatamente. Gli strumenti che abbiamo usato per contrastare la violenza in questo Paese sono molto violenti e radicati nella nostra cultura. Se entri in una prigione, là dove mandiamo la maggior parte delle persone che hanno commesso atti violenti, puoi vedere come queste siano immerse in una violenza maggiore rispetto a quella che caratterizzava le loro vite prima di entrare nel sistema. E io davvero non so come ci si possa aspettare di far capire loro che la violenza è inaccettabile quando ancora manteniamo in vigore questo contesto altamente punitivo.

Se penso a un momento della storia in cui sarebbe stato possibile raggiungere un certo consenso su una riforma di giustizia di stampo riparativo, quello attuale decisamente non sarebbe tra quelli. Questo è, in realtà, il momento sbagliato considerato che l’attuale Presidente continua a riferirsi al binomio “ordine e legge” e di recente ha apertamente sostenuto il comportamento di un diciassettenne che aveva sparato a due manifestanti. È chiaramente evidente che dobbiamo ancora cambiare la mentalità delle persone.

Studi recenti dimostrano che l’austerità nei programmi di assistenza sociale e salute pubblica hanno portato la polizia e le carceri a diventare una risposta a tutti i problemi sociali e, pertanto, finanziare adeguatamente i servizi basati sulla comunità ridurrebbe probabilmente il volume delle persone uccise dalla polizia. Tagliare i fondi alla polizia è una delle opzioni sul tavolo e anche una richiesta del movimento Black Lives Matter. Questa taglio – inteso come assegnazione di alcuni fondi dai dipartimenti di polizia ai servizi sociali – sarebbe una buona opzione? o può essere un messaggio confuso che potrebbe ritorcersi contro, soprattutto considerando il fatto che spesso la stessa polizia soffre della mancanza di una formazione sufficiente e di risorse adeguate?

Quello che è senza dubbio scioccante è che i dipartimenti di polizia dispongono di questi budget ormai da molto tempo e ancora non sembrano aver capito come esercitare il loro lavoro in sicurezza senza causare terribili conseguenze. Al contrario, le forze di polizia continuano a svolgere i loro compiti in un modo che ha portato a una protesta mondiale. E, cosa ancor più importante, coloro che protestano oggi sono proprio quelle persone che di fatto hanno più interazioni con la polizia.

In aggiunta, il semplice fatto che a fronte di tutto ciò la polizia ottenga ancora più finanziamenti non fa altro che degradare la fiducia nel sistema. Non c’è dubbio che la maggior parte del tempo la polizia si trovi a dover gestire soltanto con le proprie armi e nessuna formazione questioni che non dovrebbero essere di loro competenza, come i senzatetto, le persone affette da dipendenza o da malattie mentali – e lo dico con compassione e empatia.

Però, guardo, per esempio, al budget della polizia di Los Angeles che ammonta circa a un mezzo miliardo di dollari e mi chiedo se questo è davvero ciò di cui hanno bisogno per proteggere e servire la città, visto che solo il 2% delle chiamate al 911 sono relative a casi violenti. Ovviamente non sono a favore di un taglio completo dei fondi al punto da minare la sicurezza degli agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni, ma sono favorevole a rivedere alcuni fondi. Credo che una parte di quel denaro dovrebbe essere utilizzata per aiutare altri professionisti affinché assistano e supportino la polizia nei loro compiti.

Ci sono circa 18.000 agenzie di polizia in America e quasi tutto il lavoro viene svolto a livello locale e statale. Questo significa che una eventuale riforma della giustizia penale ricadrà quasi interamente sulle amministrazioni locali. L’eventualità che i singoli Stati affrontino il cambiamento con una varietà di approcci può compromettere l’intero piano? Se sì, in che modo si dovrebbe contrastare questo rischio?

Posso dire che durante il mio lavoro come pubblico ministero locale, mi sono sentito molto più responsabile nei confronti della mia comunità e penso che ciò sia dovuto alle dimensioni del nostro Paese. La dimensione del Paese è decisamente un fattore che incide anche nel campo della giustizia come dimostra l’esistenza di diversi approcci che portano inevitabilmente a risultati disparati, degradando in questo modo l’intero sistema. Per cercare di contrastare questi effetti, credo che la strategia migliore sarebbe ridurre il decentramento a favore della centralizzazione e della standardizzazione in tutto il Paese ricorrendo ad alcuni parametri realistici, ma ancora una volta ritengo che sia qualcosa di molto complicato da realizzare. Negli Stati Uniti ogni Stato si considera indipendente e, quindi, creare un sistema giudiziario che vada bene per tutti sarebbe davvero difficile.

A più riprese è stata proposta l’adozione di best practices per proteggere i diritti civili e la privacy personale rispetto all’utilizzo di videocamere portatili (body camera). Tuttavia, i diritti civili e la privacy personale devono essere protetti anche in relazione all’uso da parte della polizia della tecnologia di riconoscimento facciale come altre tecnologie invasive che consentono la sorveglianza negli spazi pubblici e ampliano notevolmente i poteri di identificazione e tracciamento concessi alle forze dell’ordine. Recentemente è stato osservato che il sistema di riconoscimento facciale presenta tassi di errore elevati che colpiscono in modo sproporzionato le persone di colore, gli asiatici, e altre minoranze etniche, ma anche le donne. Qual è la sua posizione sull’uso del riconoscimento facciale da parte della polizia?

Non sono decisamente a favore di dotare la polizia di ulteriori strumenti tecnologici. Penso che il problema sia di tipo culturale. Fino a quando non si sarà raggiunto un cambiamento in questo senso, qualsiasi nuovo strumento adottato verrà utilizzato sempre a spese di quelle persone che non rientrano nella norma dominante. Sono fermamente contrario a questi tipi di strumenti creati per gli scenari peggiori.

Ero a Boston durante l’attentato alla maratona, e quella è stata la prima e unica volta in tutta la mia vita in cui mi sono sentito a mio agio con l’utilizzo di questo tipo di tecnologia da parte della polizia, ma non è certamente qualcosa che desidero sia applicato nella routine quotidiana da parte delle nostre forze dell’ordine. Penso che possiamo prevenire il crimine solo se vi è fiducia nel sistema e se lo facciamo in modo onnicomprensivo, includendo cioè tutti i diversi tipi di persone, senza ricorrere alla violenza per modificare il loro comportamento.

Nel tentativo di raggiungere una maggiore efficienza ed efficacia, le forze dell’ordine di tutto il mondo si affidano sempre più alle applicazioni di intelligenza artificiale (IA) per prevenire minacce e gestire le risorse in un modo che, tuttavia, pone rischi significativi per ​​una società democratica. Allo stesso modo la tendenza al ricorso agli algoritmi sta determinando l’utilizzo di nuovi strumenti impiegati delle autorità giudiziarie per prendere decisioni in materia di cauzione, libertà condizionale, determinazione della pena, nonché per valutare le probabilità di recidiva. Questo è particolarmente vero nel caso delle attività di polizia predittiva e nell’uso di strumenti di valutazione del rischio, che possono rafforzare o amplificare alcuni pregiudizi e contribuire decisioni pregiudizievoli ed esiti discriminatori. Cosa ne pensa dell’uso di questi strumenti di valutazione del rischio IA?

Gli strumenti di valutazione del rischio (risk-assessment tools) sono molto interessanti perché in realtà sono stati progettati per ridurre le disparità e la soggettività nel momento in cui si deve prendere una decisione, ma ancora una volta si dimostrano essere un esempio da non seguire nel costruire strategie senza aver prima realizzato il necessario cambio culturale.  Si tratta di strumenti sofisticati scaraventati in un sistema che è ancora antiquato e arcano. Non a caso, coloro che ci si occupano della realizzazione di questi strumenti continuano a portare con sé gli stessi pregiudizi impliciti ed in questo modo quello che ne risulta è che finiamo per perpetuare sempre le
medesime strutture. In ogni caso credo anche che il fatto di prendere decisioni sulla base del rischio che accada qualcosa di brutto sia di per sé un fallimento: gli esseri umani sono creature molto più complicate.

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