La nuova via della seta e la sfida di Pechino alle democrazie occidentali

La nuova via della seta e la sfida di Pechino alle democrazie occidentali

Le notizie sulla crescita economica cinese, sia pur rallentata da squilibri macroeconomici, indebitamento complessivo e “guerra commerciale” con gli USA, confermano la portata dei risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese: un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e – almeno apparentemente – da qualsiasi forma di opposizione interna. La trasformazione “neo-imperiale” della potenza cinese, i successi registrati in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione), sia pure con le carte spesso “truccate” della sottrazione illegale dei dati ad aziende e ricercatori occidentali, è stata sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente uni-direzionali per la Cina. Ciononostante, sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino, che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale.

Su questo sfondo, le iniziative diplomatiche commerciali, finanziarie, militari di Pechino procedono con un “crescendo” nel quale ha trovato perfetta collocazione la grande esercitazione militare russo cinese di fine estate – con trecentomila soldati, mille carri armati, centinaia di aerei e comandi integrati russo cinesi – e gli ormai continui e entusiastici incontri tra Putin e Xi: i due leader si riservano il privilegio di chiamarsi “i migliori amici” l’uno per l’altro, con una plateale “santificazione” che entusiasma anche taluni – non sempre disinteressati… – esegeti del pensiero cinese e dei valori euro-asiatici. Sono certamente molti i paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”, negoziati con metodi spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori.

Il disegno di Pechino pare far parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante: un progetto che viene da lontano, ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping. Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, della “Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?

La stampa cinese – non aliena da un certo culto della personalità – ha ribattezzato queste iniziative “il cammino di Xi Jinping”; e si sollecitano continuamente apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna… Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese, ma ciononostante sono numerose le riserve a seguire i “desiderata” di Pechino, perfino da parte di Paesi come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente ed economicamente alla Cina. Si discute ora, ad esempio, di quale vero interesse abbia Myanmar alla realizzazione del porto di Kyaukphyu nel Golfo del Bengala, con annessa “Zona Economica Speciale”, all’astronomico costo di 7.3 Miliardi $, finanziato da un conglomerato dello Stato cinese che avrebbe una quota del 70% e la gestione per cinquant’anni: il porto sarebbe di enorme valore per la Cina, perché darebbe accesso al mare all’importante Provincia dello Yunnan, e consentirebbe alla flotta mercantile e militare cinese di svincolarsi dallo Stretto di Malacca.

Lasciano però molti dubbi le modalità di rimborso del prestito cinese per finanziare il 30% della quota birmana: tutti conoscono infatti quanto avvenuto solo lo scorso anno con il finanziamento cinese per il Porto di Hambantota in Sri Lanka, passato direttamente in mani cinesi con 69 Kmq di territorio circostante (!) perché, nel giro di pochissimo tempo, il Governo locale non è più stato in grado di onorare il debito. Nei mesi scorsi un think-tank particolarmente autorevole nelle questioni dello sviluppo sostenibile – il Centre for Global Development – ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi verso la Cina: Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia Pakistan; in meno di due anni, la percentuale debito/PIL è passata per effetto dei progetti cinesi, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%.

In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese (!) e la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo di quella nazione. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Miliardi di Dollari: non solo il Presidente Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale – ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”.

Le preoccupazioni più immediate riguardano quindi i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità.

Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito le nuove “vie della seta” cinesi una sfida alle regole del libero mercato: la maggioranza degli investimenti cinesi nell’Unione Europea nell’anno 2017 provengono infatti da aziende statali ed i settori maggiormente attrattivi per i capitali cinesi sono infrastrutture critiche di importanza nazionale in settori strategici come trasporto, energia e digitale.

La Cina attraverso le sue controllate ha quindi accesso a informazioni di importanza strategica nazionale ed europea a proposito di investimenti talvolta strettamente legati a strategie geopolitiche mondiali, come nel campo dell’approvvigionamento di energia, o a brevetti ed innovazioni tecnologiche come nel settore digitale e dell’automazione. Tutto questo senza che esista a livello europeo un vero e proprio “scudo” contro gli investimenti impregnati da intenti politici a volte intrusivi e che talvolta mettono dubbi sul fatto se in settori strategici strettamente legati alla sicurezza nazionale ed europea possa essere accettata la presenza di potenze straniere sulla “plancia di comando”.

Inoltre gli investimenti di aziende italiane ed europee in Cina sono fortemente condizionati da restrizioni di accesso al mercato e quindi il principio di reciprocità non è rispettato mettendo le nostre aziende in una condizione di disparità competitiva che avvantaggia fortemente le aziende cinesi. A differenza dell’Unione Europea, gli Stati Uniti hanno un sistema di controllo degli investimenti stranieri attraverso il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), cioè un comitato che verifica se determinati investimenti stranieri possano arrecare danno alla sicurezza nazionale; in Europa un tale sistema non esiste ed è solo in discussione ora una proposta della Commissione che praticamente si base su un sistema di coordinamento dei sistemi di screening nazionali.

Abbiamo persino ascoltato in alcuni dibattiti, nell’agosto da poco concluso, personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo come scritto nei Trattati europei, ripetere come “verità rivelata” che la Belt and Road Initiative e la Nuova Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, rilanciando pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino, e le recenti missioni in Cina del Sottosegretario Geraci e del Ministro Tria, e da ultimo del Vice Primo Ministro Di Maio, si sono concluse con enfatiche dichiarazioni sui vantaggi di possibili acquisizioni cinesi in comparti strategici, nelle reti di trasporto e nelle alte tecnologie.

Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, altre priorità interpretate in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”, come già successo con l’Iran.

Trump, Macron, Merkel e May manifestano serie preoccupazioni e stanno predisponendo misure di tutela dei propri interessi nazionali: non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e all’esigenza di una più oggettiva valutazione della “questione Cinese”?

Amb. Giulio Terzi 

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