N55 – 2/12/2019

N55 – 2/12/2019

PRIMO PIANO

Joshua Wong, Segretario del movimento democratico Demosisto di Hong Kong, interviene al Senato italiano
Il 28 novembre si è svolta, presso la Sala Caduti di Nassiriya del Senato, la conferenza “Hong Kong, la libertà di tutti: La posizione dell’Italia sui diritti umani”, organizzata dal Partito Radicale, la Fondazione Fare Futuro e il Global Committee for the Rule of Law, a cui è intervenuto in collegamento video da Hong Kong Joshua Wong, Segretario del movimento democratico Demosisto di Hong Kong, che avrebbe dovuto parlare in persona al Senato. Si era già munito di biglietto aereo, ma ha dovuto rinunciare al viaggio dopo che le autorità di Hong Kong gli hanno notificato il divieto, in via cautelativa, di lasciare il Paese. Dopo le elezioni distrettuali a Hong Kong, che hanno consegnato una vittoria netta e storica ai candidati democratici e in virtù della posizione italiana rispetto alla Cina, gli organizzatori hanno voluto riflettere con Joshua Wong sulle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese e sulla promozione dello stato di diritto.

L’incontro è stato promosso e introdotto da Giulio Terzi, Ambasciatore e presidente del Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella”, dal Senatore di Fratelli di Italia Adolfo Urso e da Laura Harth rappresentante del Partito Radicale alle Nazioni Unite. Hanno preso poi la parola alcuni parlamentari tra i quali: Valeria Fedeli (Partito Democratico), Andrea Delmastro Delle Vedove (Fratelli d’Italia), Lucio Malan (Forza Italia), Federico Mollicone (Fratelli d’Italia) e Manuel Vescovi (Lega).

Domenico Letizia ne ha scritto su L’Opinione.

Attacco dell’Ambasciata cinese alle istituzioni italiane
Il 29 novembre, all’indomani della conferenza organizzata al Senato, l’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia ha diffuso via Twitter il testo seguente: “Joshua Wong ha distorto la realtà, legittimato la #violenza e chiesto l’ingerenza di forze straniere negli affari di #HK” ha detto il portavoce dell’Ambasciata Cinese. “I politici italiani che hanno fatto la videoconferenza con lui hanno tenuto un comportamento irresponsabile.”

Alle parole del portavoce cinese e del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha risposto il Partito Radicale e il Presidente del Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella”, Giulio Terzi, che ha dichiarato via Twitter: “Inammissibile tentativo di censura della libertà politiche da parte dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia. Come organizzatori dell’evento, con Joshua Wong, ricordiamo al portavoce che siamo cittadini e non sudditi.”

La clava USA contro la Cina sveglierà l’Italia? Parla Terzi
Il 28 novembre l’ex Ministro degli Esteri, intervistato dalla piattaforma online Formiche.net ha detto: “Qualcuno spieghi la posizione italiana sugli aspetti non chiariti del memorandum con la Cina”. E su Hong Kong: “i cinesi condannano le intromissioni dei Paesi occidentali ma sono i primi a intromettersi nei loro affari domestici”.
La mossa americana anti-cinese, di Congresso e Casa Bianca, nella direzione dello Hong Kong Human Rights and Democracy Act è un passo di grande importanza da un punto di vista dell’affermazione universale dei diritti umani, osserva l’ambasciatore Giulio Terzi, ex Ministro degli Esteri. Ma va anche oltre, perché quel tema torna ad avere un ruolo centrale nella politica estera all’interno di una cornice critica come quella Usa-Cina e come quella dei rapporti ancora molto limacciosi tra Italia e Cina.

Come leggere in filigrana la firma di Trump sull’Hong Kong Human Rights and Democracy Act?
È un passo di grande importanza da un punto di vista dell’affermazione universale dei diritti umani. La dichiarazione, ricordo, è contenuta in una legge completamente bipartisan: il popolo americano nell’interezza dei suoi rappresentanti ha deciso che era giunto il momento di intervenire nel rapporto cruciale con la Cina riaffermando i diritti umani, riposizionandoli al centro. Non dico che siamo tornati alla politica di Carter e dell’idealismo americano, ben lungi da tutto ciò. Ma quei diritti sono tornati ad avere un ruolo centrale nella politica estera all’interno di una cornice critica come quella Usa-Cina.

Qual è l’obiettivo cinese?
La Cina, riconoscendosi sempre più nella sua identità comunista con Xi, che ha ricordato più volte l’eredità anti occidentale di Mao, spinge anche all’Onu per contestare il principio di universalità dei diritti umani, che invece è contenuto in tutti i grandi trattati che la stessa Cina ha ratificato nel corso degli anni. Inoltre la presa di posizione netta e precisa dell’amministrazione Usa a convalida di una decisione del Congresso viene espressa in un giorno simbolico come quello del Ringraziamento.

Il cinguettio di Wong in tutta Italia: una risoluzione per la democrazia a Hong Kong
Il 30 novembre la piattaforma online Formiche.net ha raccolto una dichiarazione rilasciata all’Agi da Matteo Angioli, Segretario del Comitato Globale per lo Stato di Diritto: “Da molto tempo seguiamo il rapporto con la Cina”, anche promuovendo iniziative, “per mantenere la pressione su un Paese che parla di stato di diritto ma per il Politburo cinese è la fredda applicazione della legge” soprattutto quando questa non è “in sintonia con i diritti umani”. Matteo Angioli, segretario di Comitato Globale per lo Stato di Diritto, ha commentato con queste parole all’agenzia Agi la videoconferenza che si è tenuta a Senato giovedì 28 novembre con Joshua Wong. L’associazione, intitolata a Marco Pannella, è stata tra gli organizzatori dell’appuntamento al quale hanno partecipato parlamentari e non, spingendo il portavoce della rappresentanza diplomatica di Pechino a puntare il dito contro politici italiani, tacciandoli di “comportamenti irresponsabili”.

“Già nel 2017 abbiamo cercato di ospitare al Senato Dolkun Isa, presidente del Congresso Mondiale Uiguro, che non potè entrare nemmeno per un caffè perché c’erano pressioni statali sulla presidenza del Senato. Isa era nella lista dell’Interpol, ma prese liberamente l’aereo, girava per Roma; quando però si trattò di entrare al Senato, fu avvicinato dagli agenti della Digos che gli impedirono di entrare”. Tra gli esempi di violazione dello stato di diritto in Cina, il Segretario ha citato la detenzione di “milioni di Uiguri nei campi rieducativi, per non parlare di quello che sta accadendo da decenni in Tibet”.

Audizione della Camera di Impeachment di Trump
Su Il Mattino, Luca Marfé scrive che non ci saranno né Donald Trump né i suoi avvocati che parteciperanno alle udienze della Camera di Impeachment. La possibilità è stata lanciata solo pochi giorni fa dallo stesso Trump, il quale ha affermato di non aver paura di difendersi personalmente dagli attacchi dei democratici. È proprio in queste ore, tuttavia, che sta arrivando la schiena della Casa Bianca: “Non possiamo assistere a un’audizione in cui non è chiaro chi siano i testimoni o in che modo il comitato di giustizia intende assicurare un procedimento imparziale contro il presidente”. Questo apre la lunga e velenosa lettera con cui l’ala ovest sfida la sinistra aperta alle stelle e alle strisce; nelle righe seguenti, il messaggio diventa ancora più chiaro. “Questa indagine infondata e ovviamente distorta allo stesso tempo viola tutti i precedenti storici, tutti i più elementari diritti procedurali e tutti i principi fondamentali dell’equità”.

Lo staff del comandante in capo, in particolare, si rammarica del fatto che l’udienza del loro assistente sia stata fissata a quarantotto ore dopo la convocazione, impedendo così alle forze dell’ordine del magnate di avere la possibilità di prepararsi adeguatamente. Non solo quello. In effetti, non sembra casuale che coincida con il vertice della NATO che vede Trump impegnato a Londra alla corte di Boris Johnson. In un modo o nell’altro, in breve, affrettarsi e mettere in imbarazzo un presidente che qualcuno stringerebbe sempre più le maglie della giustizia che qualcun altro, d’altra parte, ritiene ingiusto.

Dieci punti per evitare le sanzioni in Cambogia
La crisi politica in Cambogia è peggiorata dal 2017. Fino ad allora, il regime autoritario e repressivo del Primo Ministro Hun Sen era ancora in grado di presentare un’immagine di stabilità dietro una facciata della democrazia, che nascondeva un’opposizione ammanettata, elezioni manipolate e una giustizia obbediente al sistema. Ma questa facciata è rapidamente crollata con l’arresto a settembre 2017 del leader dell’opposizione Kem Sokha e lo scioglimento nel novembre 2017 dell’unico partito parlamentare di opposizione, il Cambodia National Rescue Party (CNRP) che Kem Sokha aveva fondato con Sam Rainsy nel 2012.

Dal 2013 il CNRP ha avuto il sostegno di quasi la metà dell’elettorato. La sua dissoluzione è stata seguita a luglio 2018 da elezioni molto controverse in cui, grazie all’eliminazione del CNRP, il partito di Hun Sen ha ottenuto tutti i seggi dell’Assemblea Nazionale. Questo ritorno a un sistema a partito unico ha segnato l’evidente morte della democrazia alla quale si aggiunge la violazione degli Accordi di Parigi del 1991 che garantiscono un sistema di democrazia “liberale e pluralista” per la Cambogia.

Di fronte a questo cammino verso totalitarismo, la comunità internazionale, ad eccezione della Cina, ha reagito con ferme condanne. La reazione più forte è arrivata dall’Unione europea, che ha emesso una sorta di ultimatum alla Cambogia sollecitando il governo a ristabilire i meccanismi democratici prima del 12 dicembre 2019, oppure subire la revoca del programma denminato “Tutto tranne le armi” che offre una serie di vantaggi commerciali, vitali per l’economia cambogiana.

IRAN E MEDIO ORIENTE

Amnesty International: almeno 161 manifestanti uccisi in Iran
Amnesty International ha reso noto il numero delle vittime provocate dalle forze di sicurezza nei disordini che hanno colpito più di 100 città del Paese la scorsa settimana. Sono 161, mentre fino a pochi giorni fa il bilancio era di 143. “Il numero confermato di manifestanti uccisi in Iran è salito ad almeno 161 manifestanti, secondo i rapporti credibili ricevuti da Amnesty International”, si legge in una breve dichiarazione inviata a Radio Free Europe/Radio Liberty il 29 novembre.

Amnesty ha aggiunto che “il bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto”. Le autorità devono infatti ancora pubblicare il bilancio ufficiale delle vittime definitivo a seguito dei disordini scoppiati la sera del 15 novembre. In un rapporto separato, pubblicato il 27 novembre da Human Rights Watch, le autorità iraniane sono accusate di “nascondere deliberatamente” la portata delle misure repressive adottate nei confronti di chi ha partecipato alle manifestazioni.

Un legislatore iraniano, Hossein Naghavi Hosseini, membro del comitato per la sicurezza nazionale e della politica estera del parlamento, è stato citato dopo aver dichiarato che sarebbero più di 7000 le persone arrestate. L’establishment clericale iraniano continua ad addossare la responsabilità dei disordini a “criminali” sostenuti dai nemici stranieri, in primis gli Stati Uniti e i suoi alleati Israele e Arabia Saudita.

Dichiarazione sulla presenza in Italia del Ministro degli Esteri iraniano
Mentre prosegue la repressione delle rivolte popolari in Iran, Elisabetta Zamparutti per Nessuno tocchi Caino, Giulio Terzi per il Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella” e Maurizio Turco per il Partito Radicale, hanno dichiarato quanto segue in merito alla presenza di Mohammad Javad Zarif in Italia.

È con grande indignazione che apprendiamo della partecipazione di Mohammad Javad Zarif, Ministro degli Affari Esteri del regime iraniano, alla Quinta edizione della conferenza “Roma MED – Dialoghi Mediterranei” che si terrà a Roma dal 5 al 7 dicembre.

In Iran è in corso una rivolta che si è estesa a 182 città in 31 province. Le autorità hanno interrotto Internet e messo in atto una repressione che ha causato la morte di 450 persone, 4.000 feriti e l’arresto di oltre 10.000 manifestanti. La Resistenza iraniana ha pubblicato i nomi di 179 vittime, tra cui giovani e adolescenti, la maggior parte uccise da cecchini o dalle Guardie Rivoluzionarie che sparavano a distanza ravvicinata. La Guida Suprema ha dato l’ordine di sparare per uccidere. I social media sono pieni di video sulle atrocità commesse dalle forze di sicurezza in Iran.

Continua qui.

New York Times: in Iran i disordini più gravi degli ultimi 40 anni
“L’Iran sta vivendo i disordini politici più sanguinosi dalla Rivoluzione Islamica di quarant’anni fa, con almeno 180 persone uccise – ma forse ce ne sono altre centinaia – nelle proteste soffocate dal governo con una durissima repressione”. Così scrive il primo dicembre il New York Times, ricordando che le manifestazioni sono iniziate due settimane fa dopo l’improvviso aumento di almeno il 50% del costo della benzina.

Nel giro di tre giorni i manifestanti in collera hanno occupato strade e piazze di città grandi e piccole per chiedere la fine del governo della Repubblica islamica e la caduta dei suoi leader. Spesso le forze di sicurezza hanno risposto aprendo il fuoco su manifestanti disarmati, molti dei quali disoccupati o giovani a basso reddito tra 19 e 26 anni. Nella città di Mahshahr, testimoni e personale medico hanno riferito che agenti del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica hanno circondato, sparato e ucciso 40-100 manifestanti – per lo più giovani disarmati – in una palude dove si erano rifugiati.

“Il recente uso della forza contro le persone in tutto il paese è senza precedenti, anche per la Repubblica islamica“, ha dichiarato Omid Memarian, vicedirettore del Center for Human Rights in Iran, un gruppo con sede a New York.

Dal regime iraniano nessuna riforma, solo repressione
I fallimenti del governo iraniano si susseguono e stanno provocando gravi contraccolpi sia a livello nazionale che in Iraq, dove l’Iran agisce da mediatore tra la popolazione sempre più insoddisfatta e il potere. In entrambi i Paesi, ciò che è iniziato con alcune manifestazioni contro le ardue condizioni economiche si è trasformato in manifestazioni di rabbia nei confronti del governo iraniano, giustamente visto come la causa principale del malessere dei manifestanti. Ma le proteste scuotono anche il Libano, dove l’Iran ha un forte interesse a preservare lo status quo. Le tre crisi hanno stanno testando i limiti della leadership iraniana che, anziché elaborare ed attuare riforme, anche graduali, mette in atto il solito ben collaudato schema: la repressione.
Rapporto di UANI sull’ultima repressione del dissenso in Iran
I racconti che filtrano dall’Iran parlano di forze di sicurezza che sparano con le mitragliatrici contro i manifestanti pacifici e di agenti che spostano i corpi dagli obitori per nascondere la vera portata della repressione del governo. Amnesty International ritiene che siano 161 i manifestanti uccisi in manifestazioni in oltre 100 città iraniane, mentre gli arresti sarebbero circa 4.000. La risposta rapida e brutale del regime iraniano alle proteste spontanee segue un copione purtroppo già visto.

Il rapporto di United Against Nuclear Iran (UANI) intitolato “Morte, Incarcerazione, Oscurità: la Guerra dell’Iran contro i Manifestanti” racconta le brutali tattiche attuate dal governo iraniano in risposta alle manifestazioni pacifiche in corso contro la corruzione e la miseria, contro i disordini economici nel 2017-18; contro l’esito delle contestate elezioni presidenziali del 2009; contro le proteste degli studenti universitari nel 1999. In ogni circostanza, il regime ha ucciso, imprigionato e torturato i manifestanti, bloccando al contempo l’accesso ad internet e impedendo alla stampa estera di svolgere il proprio lavoro.

Il Generale Salami continua a minacciare i Paesi nemici
Il 25 novembre il capo del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniano ha minacciato gli Stati Uniti e i suoi alleati durante una manifestazione pro-governo alla quale hanno partecipato decine di migliaia di persone per denunciare le violente proteste della scorsa settimana scatenatesi dopo l’aumento dei prezzi del carburante.

Il Generale Hossein Salami ha accusato gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e l’Arabia Saudita di aver alimentato i disordini. Ha affermato che l’aumento dei prezzi della benzina era un “semplice pretesto” per attaccare il Paese, aggiungendo: “Se qualcuno supera la nostra linea rossa, lo distruggeremo. Risponderemo ad ogni colpo”. Infine ha detto che se l’Iran decidesse di rispondere, “il nemico non avrà sicurezza da nessuna parte. La nostra pazienza ha un limite”.

Immagini di violenza contro i manifestanti in Iran
Sono passati oltre dieci giorni da quando gli iraniani sono scesi in piazza per protestare contro un improvviso aumento del prezzo della benzina e il governo iraniano è ancora impegnato nel contenere i disordini e i danni collaterali provocati dalla violenta repressione messa in atto dalle forze di sicurezza.

Sui social media appaiono nuovi video degli scontri, dopo che internet è stato parzialmente ripristinato. Era stato infatti bloccato per circa una settimana per nascondere l’uso della forza da parte delle forze di sicurezza di modo che i media e le organizzazioni internazionali per i diritti umani non potessero fare nessun commento. Uno degli ultimi video apparsi mostra alcuni poliziotti che attaccano un uomo con un’ascia prima di finirlo a colpi di arma da fuoco esplosi a distanza ravvicinata.

Altri sei paesi si uniscono al meccanismo Instex per aggirare le sanzioni statunitensi sull’Iran
Belgio, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia sottoscrivono il meccanismo Instex che elude le sanzioni statunitensi. Il 30 novembre Parigi, Londra e Berlino hanno accolto con favore sei nuovi paesi europei all’interno del meccanismo di scambio Instex, progettato per aggirare le sanzioni statunitensi e bloccare il commercio con l’Iran evitando l’uso del dollaro.

“Come fondatori dello strumento a sostegno degli scambi commerciali, Francia, Germania e Regno Unito si rallegrano vivamente della decisione presa dai governi di Belgio, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia di aderire a Instex”, Hanno dichiarato i tre in una dichiarazione congiunta.

Instex con sede a Parigi funziona come una stanza di compensazione che consente all’Iran di continuare a vendere petrolio e importare altri prodotti o servizi in cambio. Il sistema non ha ancora effettuato alcuna transazione.

Tanti arresti in Iran, ma nessun nome e nessun ferito
Il 25 novembre le autorità iraniane hanno annunciato l’arresto di altri 34 manifestanti in tre diverse città, in quanto responsabili di aver avviato le proteste e di aver attaccato edifici pubblici. Il comandante della polizia nella provincia di Fars ha dichiarato che 15 di loro sono stati arrestati a Shiraz e li ha definiti “principali responsabili di distruzione e incendio doloso”. Nella provincia di Lorestan, il comandante della polizia ha annunciato la detenzione di 17 persone, gli “elementi principali” che hanno incitato i manifestanti e che sono stati identificati “in breve tempo”. A Hamedan la polizia ha annunciato l’arresto di due persone, sostenendo che erano state catturate durante un tentativo di rapina.

La polizia non ha reso noto i nomi di nessuno degli arrestati, né il numero totale di arresti effettuati nelle proteste della scorsa settimana. Radio Farda e altri media stimano che il numero sia circa 4.800. Tuttavia è impossibile verificare le informazioni provenienti dalla polizia o dalle autorità giudiziarie in Iran, perché nel Paese non esistono media indipendenti capaci di diffondere le notizie secondo un codice deontologico. Inoltre, quasi tutti i processi di natura politica si svolgono a porte chiuse. Le stime sul numero di manifestanti uccisi vanno da 115 a 200.

L’Iran vuole ridurre la dipendenza dalle entrate petrolifere entro il 2020
Il governo iraniano ha deciso di eliminare la sua dipendenza finanziaria dalle vendite di petrolio per l’anno fiscale che inizia a marzo 2020. L’amministrazione ha avviato questo nuovo corso riducendo i sussidi alla benzina il 16 novembre scorso. L’obiettivo è da un lato allentare le pressioni sul bilancio causate dalla campagna di massima pressione attuata dagli Stati Uniti sull’economia del paese, e dall’altro aiutare i cittadini a reddito basso assegnando loro un sussidio. Non è detto comunque che ciò sia sufficiente a far rientrare le proteste che si stanno verificando in tutto il Paese. I fondi petroliferi, in particolare nell’ultimo mezzo secolo, hanno sempre contribuito in modo determinante al bilancio pubblico dell’Iran. Hanno coperto il 46% della spesa totale dello Stato tra il 1971 e il 2018.

La gestione di risorse sostenibili e il raggiungimento di una spesa più efficiente sono fattori chiave che l’Iran Planning and Budget Organization (BPO) persegue nell’ambito di un quadro di riforma del bilancio che mira a porre gradualmente fine alla dipendenza dai petrodollari. Mohammad Bagher Nobakht, capo della BPO, ha osservato che il governo è intenzionato a compensare le entrate petrolifere colpite gravemente dalle sanzioni statunitensi. L’introduzione di nuove leggi in materia di fisco, la riforma dei sussidi energetici e la vendita di risorse governative aggiuntive sono i primi provvedimenti previsti per aumentare le risorse finanziarie del governo.

In fiamme il Consolato iraniano a Najaf, in Iraq
Il 27 novembre manifestanti iracheni hanno preso d’assalto il Consolato iraniano nella città meridionale di Najaf e hanno dato fuoco all’edificio, aggravando così ancor di più gli scontri nelle manifestazioni che mirano alla caduta del governo il cui appoggio di Teheran è fondamentale. E’ stato forse l’episodio di espressione di sentimenti anti-iraniani più duro. Non ci sono al momento notizie di vittime nel consolato. Le autorità locali hanno imposto un coprifuoco a seguito dell’incidente. Le proteste che sono iniziate a Baghdad il 1° ottobre e si sono propagate nelle città del sud dove la situazione è più complessa per la classe dirigente sciita che controlla le istituzioni statali da quando gli Stati Uniti attaccarono il Paese nel 2003.

Lo sciopero dei distributori paralizza il Libano e la crisi aumenta
Il 29 novembre migliaia di automobilisti hanno bloccato le strade di Beirut e altre città libanesi per esprimere rabbia per la chiusura delle stazioni di servizio. Il tutto mentre il governo viene visto sempre più in difficoltà nel tentativo di gestire la crisi.

I proprietari dei distributori chiedono un aumento dei prezzi della benzina mentre la valuta locale cala e il Paese scivola sempre più in una crisi finanziaria. Le strade erano già state chiuse in precedenza, quando il Presidente Michel Aoun aveva incontrato i principali responsabili economici del Paese per discutere del rapido deterioramento della situazione economica e finanziaria e di possibili soluzioni. Sebbene il Primo ministro Saad Hariri abbia rassegnato le dimissioni dal governo il 29 ottobre, il Presidente Aoun non ha ancora fissato una data entro cui svolgere nuove consultazioni vincolanti con i capi dei gruppi parlamentari per nominare un nuovo Primo ministro.

Abbattuto un elicottero saudita in Yemen
Il 29 novembre i ribelli Houthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran, hanno dichiarato di aver abbattuto un elicottero Apache saudita vicino al confine con l’Arabia Saudita, uccidendo i due piloti. Su Twitter, il portavoce militare del gruppo, Yahya Sarea, ha scritto: “Abbiamo abbattuto un elicottero Apache saudita con un missile terra-aria e i suoi due piloti sono rimasti uccisi”. Non c’è stata ancora la conferma da parte della coalizione guidata dai sauditi. L’attacco avviene mentre sono in corso tentativi di avviare un negoziato tra i sauditi e i ribelli per porre fine alla guerra che devasta lo Yemen da circa cinque anni.

FOTO DELLA SETTIMANA
Roma, 28 novembre 2019: conferenza al Senato “Hong Kong: la libertà di tutti, la posizione dell’Italia sui diritti umani” a cui è intervenuto Joshua Wong da Hong Kong

Leave a Reply